Un campo, un giardino, un orto, una foresta inselvatichiti dall’abbandono, dalla mancanza di cure, della necessaria coltivazione, finiscono con l’essere invasi dalle erbacce, che crescono disordinate, affogano tutto, lasciano prosperare tra esse anche quelle velenose. Una natura in abbandono, muta, si degrada, a volte muore.
Questo è accaduto alla politica negli ultimi trent’anni. Si è insterilita la cultura che ne era l’ossigeno, il nutrimento, quello che la elevava ad un rango di nobile arte. Forse talvolta, come avviene sempre nel mondo colto, indulgeva a parlarsi un po’ addosso, si compiaceva dei propri saperi, coltivava sogni di improbabili utopie, si perdeva in polemiche intellettuali e di principio, a volte superflue, ma vivaddio, era intrisa di pensieri, di valori, di idee e progetti, riusciva a sognare ed a far sognare, talvolta a scontrarsi, anche duramente, e persino a combattere. Dopo, ha scelto di divorziare da ogni visione culturale. In nome Rousseau non è più citato come il grande pensatore illuminista, che conoscevamo, ma come una gelida piattaforma informatica, i cui algoritmi vengono utilizzati per illudere gli allocchi, ai quali si fa credere di scegliere e decidere, mentre una mano nascosta ne distorce, secondo il volere di una occhiuta regia, il risultato concreto.

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Insomma una volgare bisca dove si bara in nome di una presunta democrazia diretta, teleguidata e perennemente condizionata dalle manovre di chi ne detiene il dominio assoluto, ma che, indipendentemente da tale uso scorretto, finirebbe comunque col diventare l’elogio del plebiscito e della semplificazione, rispetto alla complessità creativa e prudente dei percorsi della vera democrazia liberale, fondata su pesi e contrappesi, separazione dei poteri, rule of low, tempio della libertà, dove tutte le opinioni hanno cittadinanza ed emerge quella prevalente, grazie all’uso del metodo democratico. Un confronto tra opinioni, culture, visioni, non le attuali semplici promesse di distribuzione di denaro pubblico o di mirabolanti successi, ignorando le regole fondamentali dell’economia, della sana amministrazione e del buon governo. Siamo precipitati in un pantano ed è come essere tornati ad un modo primitivo di relazionarsi, fondato sulla demonizzazione, sull’insulto, sull’invettiva.

Il confronto dialettico è scomparso, la cultura e l’intelligenza non abitano più nei palazzi delle istituzioni. Comandano poche persone, ignoranti, ma dotate di potere assoluto all’interno della propria cosca-partito, le stesse che giornalmente arringano le folle sul territorio, o ci ammorbano come ospiti fissi nei Tolk show. Sono stati cancellati i luoghi di formazione politica, che erano le sedi dei partiti, con le successive esperienze negli enti locali. Al loro posto si tengono sparute iniziative di propaganda ed indottrinamento attraverso la martellante ripetizione di pochi, ripetitivi slogan, spesso dal significato delirante, contrario ai principi costituzionali ed al rispetto degli organismi istituzionali. Il risultato, alla faccia della separazione dei poteri, è un potere assoluto e dispotico dei capi partito, che controllano quasi militarmente Governo e Parlamento. Si è persino giunti allo stratagemma di disertate le sedute del Consiglio dei Ministri per cercare d’imporre il proprio diktat agli alleati della coalizione.

Ai parlamentari è stato formalmente impartito il divieto di proporre iniziative personali ( proposte di legge, interrogazioni, interpellanze, altre iniziative ispettive, tipiche della loro delicata funzione) . Essi devono soltanto disciplinatamente votare come hanno deciso i capi partito, senza possibilità di dissenso, pena la espulsione immediata e le non ricandidatura.
Il personale reclutato, disponibile ad una tale umiliazione, è quello che può essere: disoccupati, cassaintegrati, precari, nullafacenti senza titoli di studio o esperienze lavorative qualificanti, che, pur costretti a rinunciare ad una parte della loro identità in favore del movimento, rispetto al loro gramo passato, si scoprono improvvisamente ricchi ed inebriati dall’elevatezza, ormai solo nominale, della funzione. Ovviamente, se possono, come è naturale, imbrogliano sui giustificativi dei rimborsi. A loro volta si accaniscono per l’abbattimento dei vitalizi, simbolo dei privilegi delle precedenti rappresentanze parlamentari, che, qualificate professionalmente, avevano per passione abbandonato professioni e ruoli amministrativi o imprenditoriali di elevata responsabilità, spesso molto meglio remunerate, portando in Parlamento esperienze, intelligenze, saperi, che hanno trasfuso nella apprezzata qualità del delicato lavoro svolto, senza per questo voler ignorare errori, talvolta ruberie, o comunque talvolta la difesa di interessi particolari.

Ma, con riferimento ai risultati complessivi, quelle classi dirigenti, hanno realizzato la ricostruzione postbellica, il miracolo economico, il fiorire di una industria di livello tecnologico mondiale, il prestigio di un settore agroalimentare indiscutibilmente al primo posto nel mondo, il rilancio dell’Italia come una delle più appetibili mete al mondo, valorizzando un patrimonio culturale, artistico, paesaggistico, enogastronomico senza uguali. Tutti fattori che hanno determinato una crescita esponenziale, fino a far sedere il nostro Paese nel G7 tra i grandi del mondo. Poi è cominciato il tiro a bersaglio delle Procure, con la complicità di una stampa servile, che amplificava la portata di ogni singola inchiesta e trattava un avviso di garanzia o una semplice indagine, come una inevitabile gogna, peggio delle condanne, che poi arrivavano solo dopo anni, ridimensionate, spesso escludendo completamente responsabilità di persone, che intanto erano state definitivamente espulse dal sistema e che sovente nell’immaginario collettivo finivano con l’apparire furbi che erano riusciti a cavarsela, non innocenti ingiustamente perseguitati, subendo quindi un processo politico mediatico molto più spietato e dalle irreparabili conseguenze, rispetto a quello dinnanzi alla magistratura giudicante.
Questo ha spalancato la strada agli ignoranti scelti tra famigli, segretarie, amanti, compagni di comitive nelle bettole o in birreria, che supinamente hanno accettato di essere lo strumento della mortificazione del ruolo di essere i rappresentanti del popolo e si sono asserviti ai padroni delle rispettive formazioni politiche, che, grazie ad un sistema elettorale barbarico, li hanno nominati deputati o senatori.

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Il Presidente della Repubblica ha pronunciato per la ricorrenza del 25 aprile un nobile ed elevato discorso, che, al netto di qualche ridondanza oratoria, non non può non essere condiviso. Ma egli si è fermato, forse come imponeva il suo ruolo istituzionale, al pur grande significato simbolico di ciò che è avvenuto ieri, vanto ed onore dei nostri padri, leali soldati, partigiani, fondatori dello Stato, i quali si sono dati una Costituzione fondata sui cardini ideali della democrazia liberale. Non ha sottolineato l’errore della imprudente rinuncia a costituzionalizzare la legge elettorale, che ha dato luogo alla nefasta conseguenza di leggi su misura, per ben due volte cancellate dall’intervento abrogativo della Corte Costituzionale, la quale forse sarà costretta ad un terzo. Inoltre non abbiamo notato alcun accenno al grave degrado attuale, alla necessità urgente di fermare un continuo bradisismo negativo del costume politico e della qualità della classe dirigente nominata dai partiti, che porterà il Paese a sprofondare. Forse un forte richiamo, sarebbe stato opportuno per fermare, con l’invecchiamento della politica, che è andata perdendo il carburante della passione, una crisi della qualità della rappresentanza, che sta divenendo patologica.

di Stefano de Luca