Cassazione, il padrino è da tempo malato

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Ci consideriamo uno Stato civile, viviamo in uno

Stato di diritto – almeno così dovrebbe essere – che come tale garantisce sempre il rispetto sacrosanto dei diritti e delle libertà individuali. Bene, e allora perché tali principi non dovrebbero essere applicati anche per Salvatore Riina?

La questione che ha scosso e diviso inevitabilmente opinione pubblica, politica e mondo dell’associazionismo ha origine dalla recente sentenza della Cassazione che stabilisce l’esistenza del “diritto di morire dignitosamente”.

Diritto  che va assicurato a qualsiasi detenuto, anche se quel detenuto si chiama Totò Riina, capo indiscusso  di Cosa Nostra e condannato per crimini gravissimi, che oggi all’età di 86 anni si trova in condizioni fisiche gravi.

Di fatto il giudice che deve valutare in merito alla  sua permanenza in carcere in regime del 41 bis deve tenere conto di questo principio che possiamo definire di civiltà e nel caso contrario spiegarne le motivazioni. E non sarà facile.

In sostanza la suprema Corte ha accolto il ricorso degli avvocati  di Riina che da anni chiedono il differimento della pena o i domiciliari per motivi di salute. E, come detto, questo ha scatenato una tempesta di polemiche.

Del resto va ricordato che i collegi giudicanti  hanno puntualmente negato al padrino il diritto a una fine dignitosa, fine tra l’altro negata poco tempo fa  anche a Bernardo Provenzano che pur essendo malato gravemente non gli fu mai concesso di lasciare il 41 bis dove alla fine  morì.

Stando ora all’apertura  della Cassazione la richiesta del capo dei capi tornerà al vaglio del tribunale di sorveglianza, tribunale che con il primo provvedimento non aveva considerato che vi fosse incompatibilità tra la grave situazione clinica di Riina e la detenzione. Questo perché i giudici avevano ritenuto che le patologie di cui soffre il detenuto sono sempre state tenute sotto controllo medico e in momenti di estrema criticità era stato deciso anche il ricovero in ospedale a Parma.

Fa comunque  riflettere la decisione del giudice che alla luce dei fatti ha ritenuto umanamente compatibile la realtà carceraria per un anziano che soffre di una duplice neoplasia renale e di una grave cardiopatia, oltre a un costante decadimento neurologico. La Cassazione si pone dunque in netto contrasto con l’ordinanza del tribunale affermando il diritto di morire con dignità che deve essere sempre assicurato al detenuto. Chiunque questi sia.

Non ultimo la suprema Corte evidenzia che pur considerando il caso specifico il tribunale non ha chiarito come la pericolosità di Riina possa ancora essere tale in termini operativi preso atto delle condizioni fisiche.

Intanto le associazioni liberali, come Antigone, e i Radicali sottolineano l’importanza della sentenza, perché, sostengono, lo Stato non può trattenere una persona a vita al 41 bis. Mentre don Luigi Ciotti dichiara: “C’è un diritto del singolo, che va salvaguardato. Ma c’è anche una più ampia logica di giustizia di cui non si possono dimenticare le profonde e indiscutibili ragioni“. Sul fronte opposto Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei  familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, si dice “basita” sul pronunciamento della Cassazione e annuncia proteste.

Dal canto suo la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi commenta: “In carcere è curato. Non è necessario trasferirlo altrove, men che meno agli arresti domiciliari, dove andrebbero comunque assicurate eccezionali misure di sicurezza e scongiurato il rischio di trasformare la casa di Riina in un santuario di mafia“.