Il Senato ha approvato in seconda lettura la riforma sulla separazione delle carriere: anche il magistrato è un funzionario dello Stato e non un sovrano inviolabile

Il Senato ha approvato ieri in seconda lettura la riforma costituzionale fortemente promossa dal Governo e rivendicata come un punto cardine dell’attuale legislatura, che introduce la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti. Un provvedimento atteso da tempo, che a Palazzo Madama ieri pomeriggio ha raccolto 106 voti favorevoli contro 61 contrari e 11 astenuti. A sostenerlo, chiaramente, l’intero centrodestra capitanato da Fratelli d’Italia, mentre il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle hanno votato contro. Italia Viva si è astenuta, Calenda ha votato sì.

La maggioranza esulta: “Dedichiamo il voto a Berlusconi”, ha detto il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito la riforma un sogno inseguito da trent’anni che potrebbe finalmente diventare realtà. In Aula, l’opposizione ha invece protestato duramente. I senatori del Pd e del M5s hanno lasciato i banchi durante la votazione, denunciando quella che definiscono una lesione gravissima dell’autonomia della magistratura. L’Associazione Nazionale Magistrati ha accusato il governo di voler asservire la giustizia al potere politico.

Quella approvata oggi non è solo un passo verso la riforma, ma anche l’ennesimo tassello verso la correzione istituzionale di un sistema che per troppo tempo ha permesso ad alcuni magistrati di mescolare le carriere di un doppio potere (giudicare e accusare) all’interno dello stesso ordinamento, spesso spostandosi da un ruolo all’altro come se nulla fosse, potendo coltivare così tutte le affinità e i rapporti umani maturati da un lato all’altro. È un ulteriore passo verso la fine di una ambiguità che ha alimentato opacità, sospetti e ingiustizie.

Il principio della separazione delle carriere non è una novità autoritaria introdotta da Meloni: è l’architrave di tantissime democrazie liberali. Eppure, in Italia, il tema è rimasto per decenni sospeso, tenuto in ostaggio da chi, con vittimismo e furbizia, stigmatizzava qualsiasi volontà di cambiamento con un attacco mirato al potere giudiziario. Nel nostro paese i pubblici ministeri e i giudici hanno condiviso le stesse carriere e gli stessi concorsi, creando una corporazione blindata, autoreferenziale e immune al cambiamento. La riforma promette di spezzare questo legame malsano: in futuro le carriere saranno indipendenti, con due Consigli Superiori della Magistratura distinti e una Alta Corte disciplinare.

Ci sono dei profili di rischio? Sì. Il Csm di soli pm accusatori potrebbe renderli ancor più auto-referenziali e “duri” nella caccia al colpevole. Ma chi grida al colpo di Stato contro la magistratura, va ricordato che questa riforma non tocca l’autonomia del singolo magistrato, né limita in alcun modo la libertà dell’azione penale. Tocca, semmai, il simbolo di una casta (ci è permesso chiamarla così?) che per decenni ha preteso di essere potere incondizionato senza controllo. E questo è il cuore della questione: chi teme la separazione delle carriere, teme che qualcuno guardi dentro ai meccanismi della giustizia e dica, finalmente, che anche il magistrato è un funzionario dello Stato e non un sovrano inviolabile e ineluttabile.

La strada ora prosegue con le ulteriori letture previste dalla Costituzione e, salvo sorprese, con un referendum confermativo (pertanto senza quorum) nella primavera del 2026. Potrebbe quindi essere la volta buona: il muro di gomma del corporativismo giudiziario potrebbe finalmente cedere sotto il peso della volontà politica e della domanda crescente di giustizia vera, equa, trasparente.

Alessandro Bonelli – nicolaporro.it

 

Il Senato ha approvato in seconda lettura la riforma sulla separazione delle carriere: anche il magistrato è un funzionario dello Stato e non un sovrano inviolabile