Ecco 5 libri a uso di chi, interessato, non si vuole fermare alla crosta del problema, dei problemi della giustizia italiana

Se ne parla e se ne discute poco di giustizia e dei suoi annosi, cronici problemi. Con il contagocce nelle televisioni, e passi quelle “private”. Anche il servizio pubblico radio-televisivo non è da meno: e dire, per esempio, che a metà giugno si dovrà votare per numerosi quesiti referendari, che hanno per tema proprio la giustizia. Neppure i “titoli” vengono resi noti. Di giustizia si parla (e si scrive sui giornali) solo in occasione di qualche evento clamoroso, e per qualche giorno. Mai in modo strutturale, incisivo, radicale: nel senso di andare alla radice dei problemi, e ospitare confronti e “scontri” tra politici, giuristi e protagonisti-vittime. Un argomento tabù. E dire che, a parte la quotidiana attualità, occasioni non mancano certo a partire da molti libri che offrono interessanti spunti per dibattiti e riflessioni.  

  Quello che segue è una sorta di baedeker a uso di chi, interessato, non si vuole fermare alla crosta del problema, dei problemi.

Senza vendette. Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini, di Luciano Violante Stefano Folli (il Mulino). Un ex magistrato che si è occupato per anni di terrorismo e poi a lungo parlamentare, e un cronista commentatore di politica italiana faccia-a-faccia, un dialogo serrato e incisivo. L’angolazione è quella del circuito mediatico-giudiziario che costituisce un unicum italiano, ed è senza dubbio una delle cause del discredito di cui gode la magistratura. C’è una sorta di “introduzione”, costituita da una veloce storia della magistratura nel dopoguerra; poi ci si concentra in una ricostruzione degli anni di Tangentopoli. Al di là delle indubbie responsabilità e dei risvolti penali di una quantità di politici, non v’è dubbio che a ripercorrere con un minimo di serena obiettività quei giorni, si deve riconoscer l’invasione da parte dell’ordine giudiziari di spazi che non le competevano; si potrà obiettare che c’erano dei “vuoti” lasciati dalla politica, e che quest’ultima ha le sue brave responsabilità. Concesso. Tuttavia da quel momento la magistratura ha, letteralmente, dettato legge, e non solo l’ha amministrata. E in parallelo si assiste a un progressivo degrado della magistratura stessa e della politica; ci si è illusi che l’ordine giudiziario fosse guardiano e custode dei costumidei valori. Addirittura due di essi hanno fondato partiti. La gravissima crisi della magistratura è partita da lì. Esserne consapevoli è il primo passo, necessario, per uscirne. La magistratura associata ciclicamente grida “al lupo”, indicando quella forza o quel potere esterni quale minaccia alla loro autonomia e indipendenza. In realtà il processo di deresponsabilizzazione e il senso di onnipotenza sono cancri che nascono dall’interno stesso della magistratura; e a conferma di ciò basta osservare quello che tuttora accade nell’attribuzione dei vertici apicali delle procure, e all’interno stesso del Consiglio Superiore della Magistratura. Il “sistema” denunciato da Luca Palamara, anche senza di lui è pienamente operante. A rendere ancora più grave la situazione (e ad accrescere sfiducia e disistima), l’ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’abuso del potere inquirente, l’uso di strumenti di investigazione illimitati, l’abuso delle intercettazioni, l’uso disinvolto dell’informazione di garanzia, trasformato in strumento per un anticipo di condanna, a prescindere dall’esito del processo. A tutto ciò si aggiungano impotenza di Parlamento e forze politiche che per incapacità, ignoranza, pavidità, non solo non rappresentano l’esistente di una società spaurita, ma neppure sono in grado di decidere; c’è poi un CSM che si arroga il diritto di approvare o bocciare le leggi. Un quadro desolante; il pregio del libro è di non fare sconti, indicare metodi, “descrivere” situazioni che vanno superate; e fornire qualche utile suggerimento.

  La parola, ora, ai due autori: “Questa conversazione nasce dall’esigenza di una riflessione, a trent’anni dal drammatico 1992, sulle relazioni tra giustizia, politica e cittadini. Sono uno snodo essenziale della democrazia perché la politica assicura diritti, doveri e benessere alla comunità, mentre la giustizia assicura gli stessi benefici ai singoli quando appaiano messi in pericolo. Per questa ragione lo stato di salute di una democrazia dipende in buona misura dalla politica, dalla giustizia e dalle relazioni tra l’una e l’altra. Nel 1992 la magistratura si avviava ad una stagione di potere assoluto, sciolto da regole, sostenuta dal consenso dei cittadini e confortata dall’aureola di martirio che nasceva dalle stragi di Palermo. La politica, travolta dalle inchieste, incapace di ricostruire un ordine, preparava inconsapevolmente il proprio suicidio, alla spasmodica ricerca della impunità dei singoli, incurante del vuoto che si stava creando sotto i suoi piedi. In quel vuoto avrebbero prevalso la “disgregazione e l’avventura”, secondo l’amara previsione di Craxi nel discorso a Montecitorio del 3 luglio 1992. Nei trent’anni che sono seguiti, magistratura e politica hanno progressivamente perso la consapevolezza del proprio ruolo. Il degrado è stato progressivo. Tanto per la magistratura quanto per la politica è diventata preponderante la dimensione del potere rispetto a quella del servizio. Il prezzo è stato pagato dai cittadini. La magistratura attraversa la più grave crisi di credibilità della sua storia. La politica non appare capace di riprendere nelle proprie mani la storia del paese. Anche oggi c’è un vuoto; ma oggi, a differenza di ieri, su quel vuoto c’è un ponte che vede da un lato Sergio Mattarella e dall’altro Mario Draghi. È una fortuna, ma la prudenza consiglia di non affacciarsi dal ponte per evitare che l’abisso ci chiami. L’intreccio tra regole confuse, prassi arbitrarie, apatie professionali e insipienze politiche ha generato grovigli velenosi e mai sazi.

Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistraturadi Carlo Nordio (Gueriniassociati). L’ex procuratore aggiunto di Venezia racconta di una “guerra lunga trent’anni tra giudici e politica, finita con il crollo di credibilità, agli occhi di un’opinione pubblica delusa, della magistratura. Gli eccessi della stagione degli scandali negli anni ‘90, questa la tesi di Nordioha fatto sì che “l’ordine giudiziario si sia fatto cedere dalla politica. Il principio di questi mali è correntizzazione del Csm, da cui gli scandali a cui abbiamo assistito, primo fra tutti, ma non il solo, il cosiddetto caso Palamara”.

Delitti in prima pagina’ dell’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati (Cortina editore), è il tentativo di analizzare il delicato, controverso rapporto tra giustizia e informazione; non è facile trovare un equilibrio che armonizzi due principi costituzionali. Bruti Liberati ripercorre (ovviamente la sua è l’ottica dell’inquirente) le vicende che in passato hanno appassionato l’opinione pubblica, un tentativo, il suo, di individuare attraverso quali meccanismi si restituisca “fiducia nella giustizia” senza per questo scadere nella ricerca demagogica del consenso; e al tempo stesso la consapevolezza certamente sincera da parte dell’autore, ma chissà da quanti condivisa, che la libertà di informazione e conoscenza non si deve tradurre nel “volantinaggio” di atti giudiziari: “Nella società dell’informazione la giustizia non può sfuggire al dovere di comunicare e i giudici devono confrontarsi con le critiche che vengono mosse alle loro decisioni”. Un bel manifesto-programma. Che nella pratica resta quasi sempre inapplicato.

  Bruti Liberati poi mette il dito in una piaga che sanguina tutti i giorni: opportunamente osserva che la “pubblicità del processo costituisce una essenziale garanzia contro possibili abusi e consente il controllo sull’esercizio di un potere. Peccato però che dei processi i giornali e le televisioni ci si occupino pochissimo. I dibattimenti sono sistematicamente disertati. Si telefona al magistrato e all’avvocato, e l’articolo, il servizio lo si confeziona così. E invece è nella fase dibattimentale che si gioca tutto. Questa è senz’altro una grave colpa e carenza di chi dovrebbe fare informazione, e invece tradisce il suo compito.

Giudici divoratori di doni. Esiodo, alle origini del diritto‘ (Mondadori), di Fabrizio Di Marzio, già magistrato ordinario, docente di diritto privato. In sintesi: riflessioni sul senso della giustizia nei tempi che viviamo, e si parte da Esiodopoeta e primo pensatore della giustizia. Ci si interroga sugli eterni concetti di bene e male, giusto e sbagliato; ovvio che non ci siano, non ci possono essere risposte definitive, e più che mai in questi tempi complessi e contraddittori.

La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane’ (Monitor edizioni), di Luigi RomanoavvocatoPresidente di Antigone Campania; in questo libro si ricostruisce quello che accadde nel penitenziario il 6 aprile 2020. (a metà dicembre 2021, è iniziato il processo che vede 108 imputati con accuse gravissime).

Giudici divoratori di doni. Esiodo, alle origini del diritto‘ (Mondadori), di Fabrizio Di Marzio, già magistrato ordinario, docente di diritto privato. In sintesi: riflessioni sul senso della giustizia nei tempi che viviamo, e si parte da Esiodopoeta e primo pensatore della giustizia. Ci si interroga sugli eterni concetti di bene e male, giusto e sbagliato; ovvio che non ci siano, non ci possono essere risposte definitive, e più che mai in questi tempi complessi e contraddittori.

La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane’ (Monitor edizioni), di Luigi RomanoavvocatoPresidente di Antigone Campania; in questo libro si ricostruisce quello che accadde nel penitenziario il 6 aprile 2020. (a metà dicembre 2021, è iniziato il processo che vede 108 imputati con accuse gravissime).

Quel giorno di aprile reparti della polizia penitenziaria fanno uscire dalle celle i detenuti e li picchiano con una violenza inaudita. Al punto da far intervenire, dopo la diffusione delle immagini della videosorveglianza interna, avvenuta un anno dopo, il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministrodella Giustizia, Marta Cartabia; quest’ultima, nel luglio 2021 definisce la vicenda alla Camera “una violenza a freddo con un uso smisurato e insensato della forza…“le violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti a Santa Maria Capua Vetere recano una ferita gravissima alla dignità della persona, pietra angolare della nostra convivenza civile”.

  Il libro di Romano fa luce proprio su quanto avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Durante la prima settimana di aprile si era diffusa la notizia di un contagio di Covid-19 all’interno delle sezioni del carcere. Oggi come allora è davvero difficile mantenere le norme di profilassi sanitarie all’interno di celle piccole e sovraffollate. In aggiunta mancavano completamente dispositivi di protezione individuali e i detenuti erano entrati così in uno stato di fibrillazione, rifiutandosi di entrare nelle celle e chiedendo un’interlocuzione con la magistratura. Alla protesta dei carcerati è corrisposto uno stato di tensione anche tra le forze di polizia penitenziaria, stressate dall’ulteriore carico di lavoro imposto dalla diffusione del virus. Tutti erano in uno stato di ansia visibile, prodotto da una frustrazione diffusa. Per le forze di polizia, però, era prioritario pacificare le sezioni dei “comuni”, quelle che avevano dato più problemi di gestione sin dall’inizio della pandemia. Sebbene il 5 aprile la situazione nel reparto fosse rientrata pacificamente, la perquisizione straordinaria prevista per il giorno successivo è stata mantenuta. Si è deciso quindi di governare le proteste con la forza e la violenza: la perquisizione è diventata così la “mattanza”.

Il 16 dicembre 2021 è iniziato il processo che vede 108 imputati con accuse gravissime. Un procedimento importante, lo spiega lo stesso Romano: “Attraverso questo processo si potranno accertare le condotte dei singoli durante la perquisizione del 6 aprile 2020 e la veridicità di quanto denunciato in relazione alle responsabilità personali. Il processo ha un grande valore simbolico perché sancisce il fallimento di un modello penitenziario in cui è la violenza a far da padrona. Sia come metodo di contenzione sia come strumento di conservazione dei rapporti di forza all’interno di un carcere.

Valter Vecellio – L’Indro