Il risultato dei  recenti turni di elezioni amministrative ha segnato definitivamente il tramonto di quei radicamenti politici ed ideologici, che avevano dominato il primo cinquantennio della Repubblica e che nel successivo quarto di secolo avevano iniziato il proprio declino. Il significato della caduta di importanti amministrazioni rosse in territori, che storicamente avevano rappresentato il simbolo di un insediamento,  va al di là di quanto  può derivare da una semplice lettura del risultato elettorale. Si tratta della rottura di un legame che trascendeva l’appartenenza politica, ma trovava il proprio denominatore comune in una vocazione culturale, in un sentimento popolare profondo, rappresentato dal sindacato di sinistra, dal mondo della cooperazione, dalla forte identificazione con la tradizione comunista operaia e rurale, con l’antifascismo inteso come collante nei confronti della parte ritenuta ostile. Quella intensa adesione popolare aveva nelle feste dell’Unità, non a caso testata oggi scomparsa, il suo momento unificante, dove venivano lanciate le parole d’ordine contro il padronato, il potere corrotto, l’americanismo, la rivoluzione proletaria, la fiducia cieca nel “Partito”, anche quando era governato da supponenti intellettuali borghesi o da aristocratici come Berlinguer, che predicavano una sorta di supremazia culturale e morale. Polenta, salamelle, canti e balli popolari, erano il contorno per esprimere in termini  chiari e visibili una fede indiscutibile nel sole dell’avvenire, che avrebbe portato al trionfo il proletariato.

Tutto questo si era già affievolito con l’avvento del leaderismo renziano, che, dopo il grave incidente del referendum, aveva dato segnali di cedimento alle elezioni politiche e che adesso è definitivamente obsoleto . Alcuni avvertimenti si erano registrati con i primi contrasti all’interno della Lega delle cooperative e con la perdita di consenso della CGIL, ma principalmente con la freddezza nei confronti dei nuovi capi imposti da Renzi sul territorio e che hanno dimostrato una totale incapacità di reagire alla sconfitta elettorale, concentrandosi invece nella semplice aspettativa dell’insuccesso altrui. Quel mondo, di cui abbiamo avuto una perfetta rappresentazione in tanti film, anche di grandi registi, il più delle volte celebrativi di un’intera epoca, avevano saputo rendere perfettamente l’immagine di una indiscutibile fede collettiva, soprattutto nell’ambito del mondo emiliano romagnolo, ma anche di quello umbro e toscano, oggi  appare definitivamente tramontato e potrà interessare soltanto gli storici. L’altra faccia della Luna, quella democristiana, si era già sfarinata durante il precedente venticinquennio, con un’adesione più di facciata che convinta, al carnevale berlusconiano.

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L’elettorato italiano si è ritrovato oggi in larghissima parte nel messaggio orgoglioso della Lega di Salvini,  come già era avvenuto un secolo prima con il fascismo, di fronte alle delusioni, al disfattismo, alla corruzione, al qualunquismo, alla caduta di tutti i valori identitari e delle motivazioni ideali, anche di segno opposto. Molti italiani intravedono un ancoraggio nella forza espressiva e nella determinazione di un capo forte e rassicurante. Un messaggio netto, pieno di orgoglio nazionale e senza i complessi del passato, è piaciuto, non soltanto ai ceti medi produttivi padani, ma a tutto il Paese, compreso il Mezzogiorno. Quel voto di protesta, che era copiosamente andato ai Cinque Stelle, oggi si muove in direzione di Salvini, preparando un lento ma inesorabile declino del movimento fondato da Grillo, che, raggiunto l’obiettivo del Governo, è destinato ad una subalternità alla Lega, che finirà col determinare un forte scontro interno al M5S stesso ed un progressivo abbandono da parte di un elettorato, non fidelizzato, ma che in esso aveva individuato il veicolo per dimostrare la propria insoddisfazione.

Restano in campo in quella che si definiva l’area del centro destra, briciole del mondo berlusconiano e di Fratelli d’Italia, ma in funzione sempre più gregaria rispetto alla Lega. Ed i liberali, il Partito Liberale? Sembrano scomparsi dai radar. Viviamo un’epoca troppo incolta e superficiale, dipendente dai social e dalle banalità dello spettacolo televisivo, per poter immaginare che esista ancora un cospicuo spazio per i valori e la grande tradizione culturale del pensiero liberale.

Che fare? Forse trasformare, come già in parte abbiamo fatto, la nostra azione da quella di partito politico inteso in senso tradizionale, in quella di una fucina di idee e strumento di pressione, ed a volte di provocazione, per la  valorizzazione e trasformazione in atti parlamentari e di governo, sia al livello centrale, che sui territori delle nostre proposte. Sappiamo bene di vivere in una società incolta capace di esprimere esclusivamente forze politiche a propria immagine e somiglianza. Di fronte ai veri problemi, dopo le sortite tonanti che colpiscono la fantasia ed, a volte, riaccendono l’orgoglio, si profila il rischio di trovarsi di fronte ad una classe dirigente politica culturalmente non all’altezza, che finirà col ritrovarsi nelle mani della vituperata, ma esperta ed onnipresente, burocrazia, alla quale, come già si è visto per esempio nella esperienza del Comune  di Roma, ma come si evince anche dalle prime nomine del Governo nazionale, verrà delegata alla effettiva gestione dei più grandi problemi. Altro che abbattere il mostro burocratico, come sosteniamo da anni!

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Un soggetto politico, come il PLI, non Partito in senso tradizionale, ma forte della sua antica vocazione ad essere fucina di idee e consapevole del privilegio di conoscere un metodo per affrontare e risolvere i problemi, con spirito innovativo e secondo una strada tracciata naturalmente dalla propria ispirazione culturale, potrebbe assumere un importante ruolo di elaborazione e proposta al servizio della coalizione di Governo e della Lega, che fino ad oggi è apparsa più attenta ai valori liberali, per ricercare e proporre soluzioni concrete di profonda riforma di uno Stato, che appare obsoleto, senza mordente innovativo e produttivo, ripiegato su se stesso.

Un solo esempio: il PLI potrebbe offrire alla Lega, di cui è stato alleato alle elezioni politiche, un modello per la privatizzazione di tutte  le società  ed enti pubblici, sia nazionali che territoriali, che comporti un consistente risparmio  in termini di spesa ed un miglioramento sotto il profilo dell’efficienza, lasciando alla amministrazione pubblica,  inevitabilmente da smagrire, soltanto il compito del controllo. Si ventila una ennesima ricapitalizzazione di Alitalia. Confidiamo che la Lega si opporrà con determinazione. Non conta per nulla l’eventuale colore nazionale della bandiera, ma è  essenziale che il servizio di collegamento aereo nell’interesse degli italiani e di coloro che intendono venire per turismo o per affari nel nostro Paese, sia  efficiente, aperto al pluralismo, alla concorrenza del mercato, senza badare al passaporto dei relativi azionisti. Altrettanto vale per tutte le aziende a capitale di Stato o  con partecipazione, anche non di maggioranza,  di carattere pubblico. Questo produce sprechi, clientelismo, sovente grandi perdite ed, in caso di fallimento, danni soltanto per i fornitori ed i creditori privati, dal momento che, forse giustamente, l’attenzione è rivolta soltanto a preservare i posti di lavoro in un Paese che ne ha tanto bisogno. Non si tratta di ridurre il ruolo del PLI a quello di un Centro Studi, ma di mettere a disposizione una importante tradizione culturale ed una visione chiara delle linee di sviluppo necessarie alla ripresa italiana, patrimonio che i liberali hanno conservato gelosamente. Riteniamo che ancora oggi, rispetto a partiti fondati sul potere, sulle suggestioni delle parole d’ordine, sulla capacità di colpire l’emotività degli elettori, sul carisma di un capo, un partito di  valori e proposte possa avere un ruolo importante.

di Stefano de Luca