Il contatto fisico ci manca più di quanto avremmo potuto immaginare. Viviamo nella contraddizione: rimpiangiamo gli abbracci, ma misuriamo le distanze, dimenticando che l’avversario è il virus, non chi, suo malgrado, potrebbe inconsapevolmente veicolarlo.

E così è passata una nuova giornata, in cui abbiamo cercato il modo di trasmettere vicinanza attraverso la voce, le immagini, gli sguardi, i messaggi. È un modo di esprimersi che un tempo faceva parte di un linguaggio complesso ed in parte subliminale, che trovava il suo apice naturale e vincente nel contatto. Chi non ricorda il calore che sprigiona dentro di noi il contatto di una mano amica che stringe la tua?

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Chi non desidera provare oggi quel senso disarmante e al tempo stesso accogliente, di quando riceviamo un abbraccio, muto, forte, lungo, che ci fa sentire accettati, capiti, amati, più di qualsiasi parola? Chi non si trattiene, combattendo contro un istinto ed una pulsione, dall’abbracciare una persona cara per trasmetterle tutto il bene che proviamo per lei?

E cosa dire del bacio, di quello tenero e materno, di quello comune ed amicale, di quello intimo e passionale? Una immensa porzione del nostro modo di comunicare è oggi impedita e soffocata da nuove regole, da necessarie precauzioni, da ancestrali paure. Avevamo sviluppato quasi inconsapevolmente una sinfonia di suoni, movimenti, messaggi… subliminali e non… che funzionavano alla perfezione quando erano utilizzati tutti insieme.

Ma un’orchestra senza uno strumento non raggiunge il punto più profondo del cuore… ed ora ci troviamo a parlare una lingua incompleta, che è carente di pathos. Facciamo fatica ad arrivare al centro dell’anima senza poter provare il brivido del contatto. Restiamo in superficie.

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Ma qualcosa, forse, sta succedendo. Ne sentiamo la mancanza. E la mancanza alimenta il desiderio. Si, la nostalgia di qualcosa di essenziale, che viene prima della parola, che può fare a meno della parola, e che appartiene anche all’animale. E’ quel comune senso di appartenenza, quel far parte di una medesima famiglia. Qualcosa di natura sensibile: tenerezza e affetto “vincolo di amorosi sensi” (Ugo Foscolo) che muove il cuore, spinge alla cura, che è contatto fisico, fin dalla notte dei tempi, e vorrei dire per sempre, almeno per l’uomo e gli animali superiori. La mancanza aumenta il desiderio, la cui etimologia significa “mancanza di stelle”: de-sider. Desiderio e nostalgia così vicini e indissolubili, congiunti, come gli occhi di tutti gli uomini della terra puntati a quegli astri, tanto gelidi e lontani, ma splendidi, per esprimere un desiderio.

E la nostra forza cresce, in difesa del nostro obiettivo e ci porta a lottare per ciò cui aneliamo. Abbiamo un desiderio forte, una speranza, una missione: resistere. Semplicemente resistere.

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Per poter risentire quanto prima la sinfonia che si creava quando eravamo davvero liberi di comunicare. Il contatto fisico ci manca più di quanto avremmo potuto immaginare. Dietro tutto questo, mimetizzato dalla nostalgia del contatto perduto, si annida il peggiore tra i nemici che potessimo incrociare e che, invece, dobbiamo contrastare tralasciando ogni remora: la paura. La paura che trasforma l’altro da noi, chiunque egli sia, in un untore pericoloso e che ci induce a confondere la necessaria protezione della nostra salute con la reiezione delle persone, azzerando finanche gli affetti più cari. La paura che rifiuta la solidarietà umana in nome di una salvezza soltanto sperata, alimentandosi di sospetti.

Viviamo nella contraddizione: rimpiangiamo gli abbracci, ma misuriamo le distanze, dimenticando che l’avversario è il virus, non chi, suo malgrado, potrebbe inconsapevolmente veicolarlo.