Sul referendum per ben tre volte il Pd ha detto Sì e adesso improvvisamente ma risolutamente dice NO

Referendum: quale la posizione del Partito democratico? Sì, no, boh… Del resto come potrebbe essere diversamente? Per tre volte il Pd dice NO; vira la quarta sul SI, fidando, come corrispettivo, in una legge elettorale che nessuno al momento si sogna di fare. Cambi di linea che non sono frutto di riflessione, dibattito, confronto all’interno del Partito; piuttosto è il risultato di calcoli miopi e piccolo cabotaggio di un gruppo dirigente che difetta di visione e strategia; e coltiva tattiche che lasciano il tempo che trovano.

referendum

Fra meno di un mese elezioni amministrative in importanti regioni. Scontato il trionfo del presidente leghista della regione Veneto, Luca Zaia: si annuncia un plebiscito. Nell’unica regione dove Pd e M5s hanno trovato un accordo, la Liguria, è data per scontata la riconferma dell’uscente Giovanni Toti. Probabilmente passeranno al centro-destra Puglia e Marche; in serio pericolo la Toscana: il candidato del Pd Eugenio Giani non ha lo spessore dell’emiliano Stefano Bonaccini. Al momento l’unica roccaforte del centro-sinistra «sicura», è la Campania del poco ortodosso Vincenzo De Luca. Il centro-destra ovunque si presenta compatto; la coalizione di governo divisa. Si potrebbe dire che M5s e Matteo Renzi giocano come il povero Lukaku con il Siviglia; Salvini, Meloni e Berlusconi sentitamente ringraziano.

Il futuro per il Pd non si annuncia per nulla roseo; per questo uno dei «consiglieri» di Zingaretti, Goffredo Bettini, si avventura in scenari prossimi venturi? In sostanza ipotizza una coalizione a tre: Pd (che dovrebbe recuperare un’«anima» di sinistra); grillini (quantomeno la componente che, dato il morso alla mela «palazzo», vuole continuare a gustarla); e un terzo polo, sommatoria di «moderati»: renziani, sostenitori di Carlo Calenda e (forse), Più Europa di Emma Bonino. In matematica la somma di tre unità fa tre. In politica non è mai accaduto. Già questo mostra quanto sia zoppicante il progetto di Bettini, che peraltro solleva più di un dissenso all’interno del suo stesso Partito.

Al di là di calcoli e vagheggiate fusioni, è proprio l’impianto che non regge. Con tutti i suoi errori politici (ne ha fatti parecchi), e con tutte le magagne giudiziarie (molte in attesa che siano provate), Salvini e la sua Lega continuano a essere accreditati come il maggior partito tra gli elettori (quando perde, lo fa a beneficio di Fratelli d’Italia, i voti restano nel canestro del centro destra). Il Pd e gli altri partiti dovrebbero chiedersi perché Salvini ancora «tiene», e più di loro. Forse perché, per esempio su temi come immigrazione o fisco, Salvini assume posizioni chiare e comprensibili. Le si può detestare; possono dispiacere (a chi scrive, dispiacciono). Hanno tuttavia il pregio della nettezza. Gli altri partiti si perdono in distinguo e si avvitano in arabeschi da addetti ai lavori.

Urge una radiografia lucida (e magari spietata) della realtà: c’è una classe politica che, in generale, fa del suo meglio per mostrare il peggio di sé. Oggettivamente difficile da difendere. Per questo nel Paese è diffuso un sentimento che più propriamente è risentimento; si è assetati di vendetta.

Il Pd e la sinistra hanno l’ambizione di rappresentare i ceti popolari, gli abitanti delle periferie, gli esclusi. Dovrebbero cercare di comprendere perché proprio quei ceti, quelle porzioni di elettorato si rivolgono a M5s e Lega.

Pensano di scandagliare questi umori e queste tensioni con le fantasmagorie alla Bettini? Meglio farebbero a chiedere ai vecchi sindacalisti di trent’anni fa, quando avvertivano, inascoltati, che nelle fabbriche e nelle imprese del Nord si consumava lo «strano» fenomeno di operai iscritti alla Cgil che votavano per la Lega di Umberto Bossi.

zingaretti

Consiglio non richiesto a Zingaretti e compagni: ammirevole (e per certi versi commovente) il ripetuto, continuo richiamo all’«unità» (anche se la chiamata alle armi contro Salvini e Meloni rischia di rivelarsi un boomerang). Si guardino indietro. Alla fine degli anni 50, dalle colonne del Paese diretto da Mario Melloni (il futuro Fortebraccio), «duellarono» il «Migliore», Palmiro Togliatti, già carico di anni e di esperienza, uno dei pochi tornati vivi dalla Russia di Stalin; e un giovanissimo, ma già agguerrito Marco Pannella che aveva raccolto i brandelli di quel Partito Radicale fondato da Mario Pannunzio ed Ernesto Rossi. Togliatti propone l’unità delle forze laiche, contro la Dc e i suoi alleati. Pannella oppone l’unione laica delle forze su specifici obiettivi. Giochino semantico? Si studino gli eventi degli anni successivi, se ne faccia un bilancio: i frutti dell’«unità» togliattiana; i risultati dell’«unione» pannelliana.

Ci pensino, Zingaretti e il Pd. Qualcosa di meglio del pasticciato scenario di Bettini ne potrebbe venir fuori; utile per loro, e forse per tutti.

di Valtrer Vecellio