Nella psicoanalisi, quello della rimozione è il più noto e immediato meccanismo di difesa dagli effetti di un trauma. Come quello che per la sinistra da qualche giorno di nome fa Aboubakar e di cognome Soumahoro. L’onorevole Soumahoro. Dopo essere stato idolatrato per anni da un fronte compatto e straordinariamente influente fatto di autori tv, direttori di testate e segretari di partito, con l’esplosione del caso-coop gestite dalla famiglia dell’ex sindacalista dei braccianti su cui indaga la procura di Latina i suoi sponsor sono spariti più o meno tutti. Hanno rimosso.

Fratoianni e Bonelli, che gli hanno permesso di approdare in Parlamento con gli stivali di gomma, hanno accettato la sua autosospensione dal gruppo Verdi-Si (e secondo alcuni membri del partito avrebbero ignorato le varie segnalazioni arrivate negli ultimi 3 anni). Altri, come Diego Bianchi, in arte Zoro, si sono in qualche modo autoassolti.

SUA SANTITÀ

A Propaganda Live, il programma di La7 che ha sancito l’ascesa pubblica di Soumahoro grazie al duo Bianchi-Makkox, per scagionarsi hanno chiamato in causa persino il Papa: «Stiamo parlando comunque di una persona che hanno incontrato tutti, anche quello più a sinistra di tutti, Papa Francesco… Stiamo parlando di un fenomeno di questa portata…». Poi, ribaltando la situazione, hanno sostenuto di essere loro le vittime, i primi traditi, quelli a cui Soumahoro deve delle spiegazioni: «Deve chiarire tante cose! Perché noi siamo incazzati più di tutti su questa storia! Siamo incazzati, delusi, amareggiati, non imbarazzati!». Magari le spiegazioni bastava chiedergliele prima di eleggerlo a Papa Nero. Ma del resto, come si fa a provare imbarazzo con quella faccia tosta? Ancora più barbina la figura di Marco Damilano, il mentore di Soumahoro. Il suo silenzio è, sì, allo stesso tempo imbarazzante e imbarazzato.

A Soumahoro riservò una rubrica fissa sull’Espresso e gli dedicò la celebre prima pagina del settimanale ai tempi in cui Matteo Salvini era Ministro dell’Interno.
Quell’Uomini e no che a distanza di tre anni andrebbe rovesciato di netto. Su Raitre, dove ogni sera pontifica nel suo programma Il cavallo e la torre, Damilano non ha ancora detto una parola sul caso Soumahoro, che aveva ospitato-intervistato l’ultima volta il 12 ottobre (quando disse ai giovani di «non smettere mai di sognare nonostante le cadute») e che aveva moderato il 4 novembre in un incontro all’Università La Sapienza, grazie all’invito del Collettivo Sinistra Universitaria. Per inciso, quell’incontro si tenne a pochi giorni dal sabotaggio del convegno organizzato da Azione Universitaria con ospiti Daniele Capezzone e Fabio Roscani, deputato di Fratelli d’Italia.

Perché il concetto di democrazia secondo la sinistra è sempre stato questo: può parlare solo chi dice cose che piacciono alla sinistra. Finché le dice. Poi, quando diventa imbarazzante, si rimuove e si passa alla costruzione dell’eroe successivo. Damilano negli ultimi giorni si è dedicato alle proteste in corso in Iran, alla prima manovra finanziaria realizzata dal governo Meloni, alla guerra in Ucraina e ad interviste al governatore del Veneto Luca Zaia e alla scrittrice anch’ essa frotwoman del mondo progressista Michela Murgia. Tutti temi di indiscusso valore, per quanto magari un minutino qua e là l’avrebbe potuto meritare anche la caduta del figlioccio Soumahoro. Ma comunque, Damilano è in buona compagnia. Silenzio di tomba anche da parte di altri sponsor, da Fabio Fazio che gli spalancò le porte della prima serata a poche ore dalla gaffe in Parlamento di Giorgia Meloni che nel discorso di insediamento gli diede del “tu” a Giobbe Covatta, che con Soumahoro ha condiviso le liste elettorali. Fino all’altro immancabile, maestro di rimozione, Roberto Saviano. Troppo indaffarato a gestire il processo per diffamazione intentato dalla Meloni, ha tenuto ben nascosto qualsiasi commento sull’ex amico Soumahoro. Se non ne parli non è mai accaduto.

Daniele Dell’Orco – Libero