Se l’Italia fosse una democrazia normale non ci sarebbe bisogno di Radio Radicale, almeno questo è l’argomento centrale avanzato  dai sostenitori di questa emittente. Che senso avrebbero le dirette parlamentari o di altre sedute delle sedi istituzionali, le udienze di processi chiave, le registrazioni integrali delle commissioni, trasmettere i lavori dei congressi di partito – anche quelli minori – se le istituzioni dello Stato fossero in salute?  Perchè fare una campagna martellante in favore della trasparenza se i media dell’ establishment fornissero correttamente all’elettorato tutto quello che ha bisogno per prendere decisioni serie, informate prima di andare a votare?

Gli appelli per salvare Radio Radicale dai tagli annunciati dal Governo sono dovuti al fatto che la piccola radio e il piccolo partito non hanno mai ceduto al mito della normalità democratica dell’Italia. Giusto o sbagliato che sia la piccola squadra dell’emittente – professionalmente preparatissima – ha accumulato nei decenni un archivio on line di oltre mezzo milione di registrazioni dimostrando a chi vuol capire che quelle informazioni senza filtri sono l’unico modo non violento di resistere allo stato di illegalità in cui noi italiani ci troviamo. Solo questo tipo di informazioni sono libere dalle solite manipolazioni politiche. Dobbiamo renderci conto che la guerriglia in difesa della trasparenza  è la sola speranza per la democrazia.
Quanto ai media raramente indipendenti – basti pensare che la Rai è una sorta di bottino di guerra per chi vince le elezioni – Radio Radicale li considera giustamente come semplici testi per studiare, per individuare, per indovinare, cosa sta preparando dietro le quinte del potere la casta. Leonardo Sciascia, eletto in Parlamento per i Radicali negli anni ’80, descriveva i giornali e le Tv come una sorta di tende o meglio un velario perchè ti permette di intravedere qualcosa che sta dietro, di immaginare gli oggetti che ci sono, la scena che viene preparata ma tutto ciò può trarre in inganno. Per capire davvero quello che sta dietro occorre un occhio famigliare ben addestrato. E quando si tratta di leggere, o meglio di interpretare, i segni della politica a Radio Radicale sono maestri della semiologia.
Eppure l’avventura di questa autorevole emittente rischia di finire il 20 maggio prossimo… pura follia.
L’attuale governo populista gialloverde, in particolare il Movimento 5 Stelle, non fa mistero del suo disprezzo per Radio Radicale e per le inclinazioni politiche del partito a cui fa riferimento. Così il contratto che permetteva l’entrata di fondi pubblici in cambio delle dirette delle sedute parlamentari non sarà più rinnovato. In una società in cui le divisioni politiche non sono più tra destra e sinistra ma tra garantisti e giustizialisti i radicali e l’attuale esecutivo erano destinati a scontrarsi. Nell’Italia moderna il garantismo è il credere in uno Stato di diritto e nella presunzione di innocenza mentre il giustizialismo è il credo populista: non ci sono abbastanza criminali dietro le sbarre e il lavoro dei Procuratori viene ostacolato da forze pubbliche corrotte.
Per Radio Radicale l’impegno di trasmettere le dirette di tutti i partiti anche quando non hanno nulla in comune con i Radicali, liberali, laici può essere definito da alcuni poco entusiasmante tuttavia molti critici della radio hanno ammesso che questo impegno assunto senza compromessi per la trasparenza  ha fornito indubbiamente al Paese un servizio pubblico significativo. Un esempio ne è la trasmissione “Radio Carcere”, l’unico programma radiofonico che dà voce ai detenuti. Detenuti a cui i diritti umani vengono costantemente violati a causa del sovraffollamento e i pochi contributi destinati al sistema carcerario.
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E quando si parla di Radio Radicale non possiamo tralasciare colui che ne è stato direttore per vent’anni, ovvero Massimo Bordin, voce storica dell’emittente. Con la sua seguitissima Stampa e Regime, la rassegna stampa di Radio Radicale, trascorreva oltre un’ora al giorno a leggere di primo mattino i giornali. E tra un colpo di tosse e un “vabbè”, un classico nel suo intercalare, cercava di identificare i tratti comuni degli articoli ricordando costantemente agli ascoltatori i legami tra editori e i giornali che pubblicavano i pezzi presi in visione al momento. Il punto sostanziale è che Stampa e Regime eccelleva con Bordin nel raccontare le dinamiche del potere opaco. In un Paese in cui le personalità pubbliche – in particolare i giornalisti – sono grige e senza humor Bordin era decisamente brillante e divertente mettendo a disposizione di tutti il suo enorme sapere. Spesso diceva di non avere nessuna qualifica accademica ma in realtà Bordin era un autentica enciclopedia vivente della storia italiana del dopoguerra con tutti i suoi intrighi e compromessi politici. Laddove gli intellettuali – spesso si tratta di pseudo-intellettualoidi salottieri radical chic – usano il proprio sapere, la propria presunta superiorità culturale per confondere, per offuscare chi li ascolta la conoscenza, quella vera,  veniva utilizzata da Bordin per cercare di fare chiarezza sui fatti rispetto alla macchinazioni politiche che stava leggendo. Fino alla fine il grande giornalista, maestro per tanti colleghi, non ha mai ceduto alla narrativa popolare secondo cui c’è qualcosa di inerentemente italiano nel malgoverno e che la storia dell’Italia fa si che le sue istituzioni non siano in grado di uscire dallo stato di illegalità in cui hanno spesso operato.
La posizione dei Radicali che può essere semplice o semplicista è che una soluzione è a portata di mano, ossia  basata sull’integrità personale, l’impegno politico, il meticoloso rispetto per lo stato di diritto, Tutto il resto è un escamotage, per utilizzare una parola  cara a Bordin.  Quando l’ex direttore  della radio è scomparso in aprile è stato come la fine di qualcosa di importante per tutti noi che vogliamo “conoscere per deliberare”, come hanno sempre sostenuto giustamente i Radicali.
L’esperimento di Radio Radicale iniziato nel 1975 è durato più a lungo di quanto ci si potesse aspettare. E subito il giornale giustizialista “Il Fatto Quotidiano” ne ha approfittato per pubblicare un commento del direttore Marco Travaglio dal titolo “Liberisti con i soldi degli altri”. L’obiettivo: colpire la radio dove più fa male. “Che noia, i Radicali vogliono approfittare della morte del nostro più caro nemico, Massimo Bordin, iniziando a piagnucolare di nuovo lamentandosi come sempre del regime di cui hanno fatto parte per cinquant’anni. Si descrivono come liberisti e libertari e poi chiedono soldi allo Stato illiberale che attaccano dall’inizio dei tempi”, scriveva Travaglio.
Ma la verità è un’altra: Radio Radicale chiede da anni che il suo contratto per la convenzione con il Governo sia messo a gara permettendo così alla radio di competere  nel mercato in cui i Radicali credono con passione. Non possiamo dimenticare però che la dura   realtà per i liberali e i Radicali è che non sono amati da nessuno. Le loro campagne progressiste sui diritti sociali hanno alienato i conservatori del Paese. Le loro convinzioni del libero mercato, il loro sostegno a Israele gli hanno messo contro molti a sinistra. La loro laicità militante ha portato a ripetuti scontri con la chiesa cattolica, una istituzione che Radio Radicale ha seguito sempre in maniera rigorosa e senza reverenza. Quanto ai populisti, anche senza il garantismo dei Radicali la loro posizione pro-Unione Europea è già di per sè abbastanza per alienare la nuova classe dirigente.
Questo isolamento significa che a prescindere del più ampio significato per la democrazia, della trasparenza, del metodo di Radio Radicale i fondi pubblici sarebbero diventati prima o poi un problema. Un altro problema invece riguarda i soldi provenienti dai privati sotto forma di pubblicità. Bene, questa soluzione renderebbe Radio Radicale come tutti gli altri media con una posizione editoriale di fatto compromessa da chi mette i soldi per condizionare la vita del Paese. Auguriamoci che questo non avvenga mai e che Radio Radicale non si spenga ma che continui il suo prezioso lavoro.