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Il professore Paolo Savona, nel mirino dell’Ue, pur rimanendo nella squadra, viene depotenziato: dal ministero dell’economia passa a quello delle politiche comunitarie. La manfrina di Fratelli d’Italia, che lasciano Berlusconi per sostenere il nuovo esecutivo,  non serve a nulla. Meloni e sodali restano a bocca asciutta: per loro nessun dicastero.  Stamane il giuramento.
Ma andiamo con ordine. Ci sono voluti quasi tre mesi ma alla fine il governo gialloverde voluto dalla maggioranza degli italiani ha finalmente visto la luce. Ora vada come vada ma tocca a questi signori e solo a loro l’onore e l’onere – soprattutto l’onere – di portare questo Paese fuori dalle secche. Così è stato sentenziato con il responso scaturito dalle urne il 4 marzo scorso. Ieri   sera, dopo qualche giorno di ripiegamento – causato dall’incomprensibile azione del Quirinale che aveva tentato la carta Cottarelli pur sapendo che non avrebbe mai trovato alcun  appoggio in Parlamento –  si è ripreso la scena l’avvocato Giuseppe Conte che è tornato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con in tasca la lista dei ministri per il nuovo incarico.
Un esecutivo ristudiato e limato nella giornata di ieri da Salvini e Di Maio che sono tornati di corsa a Roma per riprendere in mano la situazione proprio quando sembrava che il rapido ritorno alle urne fosse l’unica soluzione rimasta. E invece così non è stato. Certamente a sbloccare lo stallo è stato   Salvini che con una marcia indietro “strategica” – per non correre il rischio di un voto a luglio quando buona parte del nord è sotto l’ombrellone e di urne non ne vuole neppure sentire parlare – ha rinunciato al suo uomo di punta, l’economista Paolo Savona, che pur rimanendo nella lista viene spostato dal ministero chiave di via Venti Settembre e designato a dirigere quello alle Politiche Comunitarie. Un dicastero certamente meno pesante ma tuttavia da lì Savona potrebbe essere in grado di influenzare in qualche modo le operazioni di  materia  economica proprio attraverso la delega della politiche europee.  Il ministero dell’Economia, tanto agognato dalla Lega, va dunque a un uomo con  simpatie forziste. Si tratta di Giovanni Tria che   pur non avendo particolari simpatie rispetto  all’euro e nei confronti della Germania, a differenza di Savona, non si è mai spinto a palesare scenari di uscita dalle moneta unica. Nasce spontanea una  curiosità: che tipo di rapporto potrà nascere tra l’intransigente e    sanguigno Savona che non si piega all’establishment euro-bancario    e  il  più cauto e diplomatico Tria? E’ possibile che questa sostanziale differenza di posizioni possa innescare una serie di frizioni in grado di compromettere il cammino del nuovo governo?
La Lega, e a dire il vero non è la prima volta, ha dunque mandato giù il boccone amaro rinunciando a Savona anche se, a dire il vero, tale la rinuncia è stata di fatto ampiamente ripagata con l’avvocato Giulia Bongiorno  – difese con successo Giulio Andreotti nel famoso processo per mafia ed entrò in politica chiamata in An da Gianfranco Fini – che dai Rapporti col Parlamento trasloca al più importante ministero della Pubblica Amministrazione. Mentre alle Infrastrutture e alla Sanità vanno i pentastellati    Toninelli e la senatrice Grillo. Le redini  all’istruzione al leghista Bussetti e Fraccaro, grillino, avrà la delega assegnata in precedenza a Bongiorno.
Sala_del_Consiglio_dei_Ministri_(Palazzo_Chigi,_Roma)
Nella compagine di governo arriva agli  Esteri un altro personaggio ai più sconosciuto: Enzo Moavero Milanesi,
già giudice di primo grado presso la Corte di giustizia dell’Unione europea e collaboratore della Commissione europea.
Non solo. Milanesi è stato Ministro per gli Affari Europei nel governo Letta, dopo aver ricoperto il medesimo ruolo  nel precedente governo Monti. Sicuramente esponente di spessore, certo, ma la scelta  di Lega e 5 Stelle  di affidare un dicastero a un montiano lascia perplessi, stona gravemente per un governo che ha come punta di diamante il cambiamento. Invariato invece lo schema deciso giorni fa prima che Conte rimettesse il mandato: Salvini gestirà il  ministero chiave degli Interni, Di Maio al Lavoro e Politiche Sociali. Entrambi saranno vicepremier. Al fido  salviniano Giancarlo Giorgetti il mandato ai Servizi Segreti.
Imbarazzante e ancor di più inutile il salto del fosso in corsa di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che fino a l’altro ieri aveva sparato a zero sul governo gialloverde. Evidentemente ha cambiato idea e fiutando aria di poltrone    improvvisamente  ha voluto cavalcare  l’onda tentando di salire  al volo  sul carro  dei vincitori cercando così di garantirsi “un posto al sole” a palazzo Chigi. Ma le è andata male. Salvini ha cercato di inserirla in “zona cesarini” sperando in questo modo di ottenere un doppio risultato:   rafforzare la risicata   maggioranza  in Senato, garantita da appena sei senatori, e mettere di conseguenza in difficoltà Berlusconi rimasto orfano di una coalizione di centrodestra che di fatto non esiste più. Ma a mettersi di traverso sono stati i grillini che hanno stoppato ogni ambizione di FdI.
Naturalmente Meloni non l’ ha presa bene ma ha ostentato serenità pur ritrovandosi  la porta sbattuta in faccia: “Non abbiamo mai chiesto poltrone in cambio dell’entrata nel governo. Ci asterremo sul voto di fiducia perché manteniamo le nostre perplessità su questo esecutivo ma non vogliamo ostacolarne la nascita”, ha dichiarato subito dopo aver ingerito il rospo. E  visto che le sue ambizioni sono miseramente naufragate  Meloni che fa? Dal  promesso  appoggio all’esecutivo Conte al momento del voto di fiducia FdI fa dietrofront e annuncia l’astensione. Evidentemente  l’amore per la patria, l’interesse nazionale sempre sbandierato dalla pasionaria destrorsa improvvisamente si affievolisce, perde vigore nel momento in cui come contropartita non vi sono le solite ambitissime poltrone che tutti fingono di snobbare ma che in realtà tutti vogliono occupare.