di Elda Cortinovis

Non capita spesso di vedere un bel film e di uscire dal cinema con un certo senso di appagamento, la felice sensazione di aver speso bene il proprio tempo.

Così mi è capitato giovedì sera dopo aver visto Lion – La strada verso casa di Garth Davis.

Affascinata dalla fotografia e ammaliata dalla trama, mi sono lasciata trasportare dagli eventi e la storia, una storia vera, mi ha toccato nel profondo.

Banale? Forse, ma se penso a quanti film fatti di cliché ripetuti e di fatti inverosimili ho visto, credo che a buon diritto una storia che ti colpisce nell’animo, valga la pena di essere citata.

Un bambino dopo un viaggio interminabile in treno, su cui sale per sbaglio, si perde nell’immensa Calcutta, fagocitato dalla folla.

Solo, tra i pericoli, la fame e senza saper paralare il dialetto del luogo, riesce a scampare alle peggiori insidie – forse anche grazie a quell’istinto di sopravvivenza acquisita nella sua infanzia accanto al fratello maggiore – per venire poi adottato da una famiglia australiana.

In primo piano non c’è solo questo splendido bambino sopravvissuto, ma c’è un’India lacerata dalla più disperata miseria. Una povertà che noi qui, al calduccio delle nostre belle case, non ci possiamo neppure immaginare e pur sapendolo, riusciamo incredibilmente a condurre vite perfette, senza rimorsi.

Ebbene, uscita da quel cinema ho provato rammarico per tutti quei momenti sprecati ad occuparmi di falsi problemi; ho riflettuto sulla nostra incapacità di sopportare il dolore che ci fa ricorrere rapidamente ai farmaci, sull’ingordigia che ci fa mangiare fino alla nausea per seguire poi diete bizzarre o peggio, selezionare cibi per intolleranze, frutto del consumismo di cui siamo vittime ed artefici nello stesso tempo. Atroci ingiustizie: ci sono popoli che hanno fin troppo e altri che non hanno nulla, neppure di che nutrirsi.

Il protagonista era uno degli ottantamila bambini che  spariscono all’anno in India e di cui non si sa più nulla. Strappati alle loro madri e finiti nella rete dei peggiori traffici illeciti.

Ho provato a chiudere gli occhi e a pensare quanto dolore possa provare una famiglia a non ritrovare più il proprio figlio, perderne le tracce e non avere mezzi per cercarlo.

È troppo doloroso anche solo immaginare un sentimento simile.

Un’ultima osservazione, che a mio parere merita di essere scritta: c’è una mamma australiana nel film che accoglie questo bambino e poi un altro ancora e li adotta. Una mamma che poteva avere figli suoi, ma che decide insieme al marito di adottare dei bambini per fare qualcosa di concreto in questo mondo. Amare un figlio, non perché il suo, ma perché egli esiste già e ha bisogno di essere amato e protetto.

Trovo che di questa decisione sia capace solo una persona di una purezza d’animo incredibile e di una forza straordinaria ed  è di questa determinazione e generosità che grazie alla visione di  questo film mi sono arricchita.

Alla vigilia degli Oscar considero questa pellicola degna di un premio e certamente ne suggerisco la sua visione.