Intanto i fondi attivisti vanno alla carica delle sedicenti società green, per speculare sui bluff altrui e spingere l’acceleratore sulla transizione

«Vogliamo ringraziare la Repubblica popolare cinese per la rapidità con cui ha risposto alle nostre richieste». Richieste di vaccini, materiale sanitario, personale medico e paramedico prontamente accolte da Pechino in questi mesi di pandemia al punto da meritarsi il ringraziamento pubblico, sui canali internazionali della Bbc, del ministro degli esteri messicano, Marcelo Ebrard, un politico di formazione liberale, internazionalista e globalista (anni fa, quando guidava la municipalità di Mexico City, è stato nominato “miglior sindaco al mondo” da un’agenzia dell’Onu), insomma l’esatto contrario delle politiche nazional-imperialiste praticate a Pechino.

Ma ora va così. E non solo in Messico ma in tutta l’America Latina, diventata in pochi anni, dopo l’Africa, la nuova gigantesca colonia della Cina. La quale compra in modo massiccio prodotti agricoli e materie prime e investe in modo ancor più massiccio nelle economie del subcontinente americano.

Una strategia di conquista senza bandiere politiche. Soldi a tutti, sia a regimi dittatoriali di destra sia a regimi di sinistra, di comunismo tropicale. Per dire, mezzo secolo fa, nel 1971, il Cile di Salvador Allende fu il primo paese latino-americano a riconoscere la Cina Popolare, ma il generale Pinochet, dopo il golpe militare, si guardò bene dal cancellare quel riconoscimento. E venendo all’oggi, che dire del presidente brasiliano Bolsonaro (di destra, uno dei modelli del nostro Salvini) che prima, durante la campagna elettorale, denuncia l’invadenza cinese (“La Cina non compra in Brasile, compra il Brasile”) e poi stringe accordi commerciali sempre più forti tant’è che oggi il Brasile è il primo partner commerciale di Pechino (al punto da sacrificare pezzi di Amazzonia per far posto ad allevamenti e agricoltura intensiva e soddisfare così  l’appetito del gigante asiatico).

I dati confermano la morsa commerciale cinese sulle fragili economie del subcontinente americano. Dal 2004 al 2019 l’export del Sudamerica verso la Cina è passato da 12 a 116miliardi di dollari e, parallelamente, l’import cinese è salito da 22 a 171miliardi. Ormai la Cina è il secondo partner commerciale della regione e questo pesa sempre di più anche sul terreno della politica estera. Nel senso che Pechino usa in modo spregiudicato tutto il suo “soft-power” (soft-power sostenuto a suon di dollari) per spingere i governi sudamericani (di destra o di sinistra poco importa, come s’è visto) a sostenere la sua politica estera. In particolare nei confronti di Taiwan.

E così ecco Daniel Ortega, presidente “sandinista” del Nicaragua, che annuncia il 9 dicembre scorso di riconoscere il regime comunista di Pechino come unico rappresentante del popolo cinese. E lo stesso ha promesso di fare la prima donna presidente “liberale” (per quel che può valere questa definizione nella politica sudamericana) dell’Honduras, Xiomara Castro. Quanti milioni di dollari vale il ripudio diplomatico di Taiwan? Intanto, nella finanza globale, si aggirano altri avvoltoi….

Gli avvoltoi puntano sulle società green

Nella nuova stagione post-Covid gli attori più chiacchierati (nel male ma anche nel bene) della finanza globale, i Fondi attivisti, definiti anche Fondi avvoltoio perché approfittano delle debolezze (spesso solo congiunturali) di una società quotata per entrare nel capitale con l’obiettivo di aumentarne il valore a breve e portare a casa sostanziosi “capital gain”; anche i Fondi attivisti, dicevamo, hanno cambiato target e strategia. Non più solo prede facili (e tradizionali) come poteva essere l’anno scorso la Danone, il colosso francese dell’alimentare, che aveva perso quote di mercato a causa di una gestione troppo conservativa in un mercato iper-competitivo come quella della Grande Distribuzione, ma prede di qualità, quasi testimonial di questo nostro tempo: le società energetiche che ora puntano sullo sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente. Insomma, l’ecologia come il dividendo più importante. In Francia queste società hanno un nome, Esg sigla di Environnement, social et gouvernance, e sono considerate quasi con rispetto sul mercato borsistico vista la scelta a favore di produzioni non inquinanti (al punto che perfino un vecchio gigante della petrolchimica come Total ha deciso di diventare una Esg e di abbandonare man mano l’attività sporca dell’up-streaming).

Si tratta, in ogno caso, di un passaggio delicato e complicato, che rischia di esporre le Esg, le società verdi (o che vogliono diventare verdi) a mille insidie industriali finanziarie gestionali. Ecco perché rischiano di diventare preda dei Fondi attivisti (o avvoltoio, se vi piace). Non vi è sfuggito, per dire, il gigante anglo-olandese Royal Ducth Shell a cui il fondo attivista americano, Daniel Loeb (che ha in pancia 14 trilioni di dollari di attivi) ha chiesto di scindersi in due holding distinte, una per il mercato petrolifero (a rendimenti calanti) e una per il settore ambiente (che si immagina a più alta redditività).

Le prede non mancano. Secondo un’inchiesta condotta da uno dei maggiori studi legali di diritto internazionale (Skadden Arps Slate Meagher & entreprises di New York, coinvolto – detto tra parentesi – anche nella prima crisi ucraina del 2014, dalla parte degli imprenditori di Kiev al punto da essere indagato dall’Fbi), l’80% delle operazioni dei fondi attivisti nel 2022 interesserà le società verdi. Ancora un esempio: l’hedge tedesco Enkraft Capital è entrato nel capitale del primo produttore di elettricità della Germania federale, la Rwe, e ora lo sta spingendo a uscire dal carbone che resta una delle fonti energetiche più utilizzate.

Domanda finale: questi hedge, questi fondi avvoltoio, stanno facendo un buon lavoro attaccando le vecchie società energetiche e sospingendole verso i confini dell’eco-compatibilità dei loro business oppure l’obiettivo non è affatto il verde ma l’oro, il colore dei soldi?

Il Globalista