Il male antico della sinistra italiana:

la scissione!

di Domenico Ricciotto

Massimo_d'alemaUn vecchio adagio popolare recita che “la vendetta è un piatto che va servito freddo”. E questo è quello che sta succedendo tra il giovane bell’imbusto fiorentino, Matteo Renzi, e l’inossidabile baffino di Massimo D’Alema.

All’inizio il buon “toscanello” ha adottato la stessa strategia dell’unico Orazio romano sopravvissuto nella sfida dell’antichità con i rivali Curiazi di Albalonga. Nella sua azione rottamatrice, Renzi li ha liquidati uno per volta e alla fine è rimasto solo lui. Tutta una classe dirigente del partito democratico alla fine si è trovata a casa, senza possibilità di appello. Ma nella sua furia iconoclasta il giovane Renzi ha dovuto compiere alcune scelte, che non avrebbe voluto fare: ha salvato la Bindi, perché la pasionaria dem, benché fosse una sua dichiarata nemica, era utile per non perdere tutta un’ala del PD; non ha potuto fare fuori sin da subito Enrico Letta, per la sua figura ovviamente ingombrante e molto apprezzata dento e fuori il partito, ma in questo caso se lo è cucinato a fuoco lento; infine, nulla ha potuto contro il “baffino” nazionale, dato che la sua posizione di forza non deriva da una rendita interna al PD, ma dalla rete di relazioni che nel corso degli anni D’Alema ha saputo tessere in Italia e a livello internazionale.

Il leader “Massimo” D’Alema è un vero animale politico, molto scaltro, molto furbo e molto paziente, nulla a che vedere con lo smargiasso fiorentino che ci ha abituato a spacconate e repentine retromarce. Capito l’andazzo prima di altri esponenti della vecchia guardia DS, non si è fatto rottamare, ma si è, per così dire messo in un eremo felice, fingendo di essere più uno spettatore quasi disinteressato della politica, che non un attore della stessa. Non ha chiesto nulla e non ha avuto nulla. Solo qualcuno a lui fedele ha fatto trapelare una possibilità di suo coinvolgimento a livello europeo, ma Renzi ha imposto l’evanescente Mogherini. E D’Alema non ha fiatato.

imageRenzi, senza tenere in alcun conto gli avvertimenti ed i consigli dei suoi fidati più stretti consiglieri, spinto dalla MEB (Maria Elena Boschi) ha affrontato il disastro referendario, uscendone con le ossa rotte. Per un mese ha taciuto. Grave errore in politica: come in fisica esiste l’horror vacui, la paura del vuoto, che in politica si può riassumere come la necessità che lo spazio lasciato libero da un politico di rilievo sia automaticamente riempito da un altro. E l’errore strategico di Renzi, non parlare per un mese, sperando di far dimenticare la debacle, si è ritorto contro di lui. Nel perdurare del suo silenzio i suoi avversari interni si sono rianimati e la paura di non vincere le prossime elezioni politiche, e per qualcuno neppure arrivarci, vista la legge uscita dalla Consulta, li sta facendo compattare, intorno alla proposta radicale di Massimo D’Alema: niente elezioni, ma congresso subito. Obiettivo dichiarato è silurare Renzi, il capo sconfitto al referendum. Altrimenti scissione.

Renzi, fino a qualche giorno fa, spingeva invece per elezioni subito, avendo in mano il destino parlamentare di tutti i suoi oppositori e solo, dopo, il congresso per la resa dei conti. Ma non aveva fatto i conti con “baffino”. Il vecchio detto popolare romano, “a da venì baffone”, di tutt’altra epoca che paventava l’avvento di Stalin anche in Italia, adesso sembra che per Renzi sia divenuto il ritornello del peggior incubo: il ritorno di D’Alema! La parola d’ordine degli “insorti” è congresso subito e elezioni nel 2018 al naturale termine della legislatura. Ma se Renzi insiste, allora sarà scissione e un terzo degli elettori di sinistra e quasi la metà degli intimoriti quadri dirigenti del PD seguiranno “baffino”. Renzi sembra aver capito la lezione della sconfitta referendaria e già da qualche giorno sta ammorbidendo i toni ed evidenzia la possibilità che non sia il segretario del PD ad essere la guida del futuro governo che uscirà dalle elezioni prossime, per le quali si è espresso in termini non più perentori circa il ricorso anticipato: o si vota subito, oppure nel 2018.

Pure il suo mentore Giorgio Napolitano, ancora timoroso di un possibile ricorso alle elezioni democratiche, ha imposto, sembra, uno stop alle velleità di leadership di Renzi.

La scissione, quindi, per il momento è sospesa, anche per le troppe ambizioni e le confuse prospettive degli antirenziani, i quali, anziché avere una strategia complessiva come D’Alema, pensano alla propria visibilità. Emiliano, De Luca, fino ad arrivare alla “neomamma o neo papà”, che dir si voglia, di Vendola, recuperando Rossi e Pisapia. Un’altra armata Brancaleone che nulla ha a che vedere con la lucida strategia del leader “Massimo”. Infine, sempre dubbioso, quasi un novello “Cacasenno” (citazione letteraria e non offensiva che sta per saputello e dubbioso!), il povero Bersani rischia, se non decide da che parte stare, di fare la fine dell’asino di Buridano, il quale avendo due mangiatoie finì per morire di fame.

Alla fine la scissione non ci sarà e non ci saranno neppure le elezioni anticipate, si finirà a congresso e Renzi, per restare a capo del PD, si accorderà con i suoi nemici interni, limitando la fronda interna, concedendo spazi ai suoi oppositori e consegnerà a D’Alema il potere di veto, che si è ormai conquistato sul campo.

Signori, arrendiamoci, D’Alema ha già vinto comunque vada. E D’Alema ha dimostrato sul campo che spesso il vecchio è meglio del nuovo. E Renzi? Renzi, parti per suonare e restò suonato. Ma ancora bisogna valutarlo nelle difficoltà, dato che fino al referendum ha avuto il vento in poppa.