Il dramma dell’acciaieria Ilva incarna perfettamente la condizione in cui si trova il sistema Italia che ormai si è perso. Il colosso siderurgico di Taranto è quindi lo specchio che sintetizza la caduta di un Paese incapace di evitare che la propria politica industriale venisse completamente annullata. In sostanza la questione Ilva non è altro che la sintesi della nostra storia industriale.

Ora diciamo con grande onestà che il ministero dello Sviluppo Economico è da anni pressochè inesistente nel momento in cui si tratterebbe di affrontare questioni rilevanti di interesse nazionale. Oggi il dicastero è diventato solo un punto di incontro che non fa altro che raccogliere le richieste di migliaia di aziende in crisi, il che vuol dire, elemento importantissimo, circa 200 mila lavoratori a rischio. Non è forse questo un dramma nazionale? E il nodo è sempre quello: la mancanza di politica industriale alla quale possiamo aggiungere oggi l’incapacità dei vari governi che si sono succeduti nei decenni di coniugare le esigenze industriali con le emergenze ambientali. Una miscela esplosiva che rischia di provocare contraccolpi gravissimi sull’occupazione.

 

Eppure, nonostante la gravità della situazione, si tende a sottovalutare il problema e gli investimenti per tentare di salvare il salvabile non si fanno. Dal canto loro gli imprenditori lamentano la totale assenza di un vero e capace interlocutore con cui rapportarsi e questo non fa altro che complicare la faccenda.

Ecco allora che stiamo pagando il conto, un conto salato per l’assenza di una buona politica industriale. La mancanza di proposte e di progetti ha fortemente indebolito il comparto per il quale i politici di turno hanno detto fiumi di parole e di promesse ma di azioni concrete in grado di imprimere una svolta non se ne sono viste. E intanto il mondo imprenditoriale sta smantellando gli impianti e se ne va altrove, lontano dall’Italia. Non sopportano più di essere ostaggio di Procure, ambientalisti, sindacati, tassazioni esagerate. E come dargli torto. Il fatto è che la conseguenza peggiore è che i lavoratori impiegati in quelle fabbriche rimangono a casa.

Insomma, l’Ilva è lo specchio di questo fallimento dovuto a ripetuti errori clamorosi. Il polo industriale è  il più grande d’Europa ed è evidente che nell’era della globalizzazione ci sono aziende che si affacciano sul mercato globale per acquistare  il marchio di prestigio e nello stesso momento possono chiudere i battenti dell’impresa che era titolare di quel  marchio. Ed è proprio in questi passaggi che servirebbe una attenta politica industriale in grado di bloccare l’emorragia di un patrimonio manifatturiero italiano. Di precedenti ne abbiamo avuti come nell’industria alimentare e quindi non solo nell’acciaio.

A complicare la vicenda si aggiunge purtroppo una ulteriore fragilità che alimenta le preoccupazioni, ossia quella di un’alleanza di governo dalla tenuta incerta – poichè nata da intrighi di palazzo al solo scopo di  mantenere posizioni di potere – che guarda con maggiore interesse alla tenuta della coalizione che alla soluzione dei problemi. L’elemento sostanziale è che si tratta di una accozzaglia giallorossa che fa di tutto pur di evitare di andare alle elezioni anticipate e far vincere Salvini, il loro nemico numero uno.

Da qui si capisce la fretta della multinazionale franco-indiana che spinge per un precipitoso ritiro. E questo è comprensibile visto che a livello industriale nulla è più pericoloso che contrarre impegni con governi tanto presi dalle loro beghe interne. La voglia di prendere il largo da parte di ArcelorMittal è tale che avrebbe proposto al governo la risoluzione definitiva di ogni rapporto sulla vicenda ex Ilva mettendo sul piatto il pagamento di un miliardo di euro pur di  lasciare gli impianti a Ilva in amministrazione straordinaria entro aprile 2020.

Ci sarebbe dunque la necessità urgente di un confronto qualificato ma questo non può essere possibile in mancanza di credibilità e autorevolezza, elementi essenziali che caratterizzano le leadership consolidate. Un vuoto drammatico che rende ogni investimento in Italia pericolosissimo, un’avventura troppo rischiosa che non vale la pena affrontare per gli investitori stranieri.

Inutile dire che il nostro modo di gestire la “bottega Italia” non solo penalizza ma neppure sa sfruttare, trattenere coloro che magari sarebbero interessati a investire. Tantomeno attrae perchè incapace di rendersi credibile rispetto ai mercati internazionali. Il fatto che tale deficienza ci porta alla rovina poichè buttiamo all’aria le grandi risorse, i grandi patrimoni  che hanno contribuito a fare dell’Italia uno dei primi paesi industrializzati del mondo.

Governi incapaci producono danni enormi., incalcolabili. Loro è la responsabilità di una mancata crescita e della fuga di giovani cervelli che se ne vanno all’estero dove in brevissimo tempo vengono invece apprezzati e valorizzati sul campo. Pensiamo alle industrie che se ne vanno lasciando senza lavoro migliaia di persone, fenomeno che contribuisce inevitabilmente al peggioramento del sistema assistenziale di un bacino di disoccupati sempre più consistente.