Chissà se Dominique Lapierre e Larry Collins avrebbero usato, per raccontare l’abbandono dell’Europa da parte del Regno Unito, lo stesso titolo del loro famoso libro sulla nascita dell’India.

Cosa altrettanto intrigante. Anche se meno insanguinata di quanto non fu la fine dell’Impero coloniale britannico nel sub continente indiano e la scia di violenze che, poi, seguì la partizione tra India e Pakistan.

La retorica, però, è agli stessi livelli. Almeno se si resta ai toni roboanti di Boris Johnson e a quelli, addirittura un po’ più farneticanti, di quel Nigel Farange riuscito nell’obiettivo di veder finalmente avverato il distacco dal Vecchio continente, al prezzo di sparire politicamente, però, lui e il suo partito della Brexit, completamente assorbito dal Partito conservatore.

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E’ il mondo degli affari che sta dietro i “tories” ad aver trionfato e consegnato a questi ultimi una predominanza a Westminster che non coincide con i volti espressi, soverchianti, a favore dei partiti intenzionati a restare in Europa. Non c’entra nulla il cosiddetto “isolazionismo” inglese. Neppure educazione e costumi che, semmai, avrebbero spinto a restare comunque inseriti in Europa.

La verità è che gli interessi contrari alla Brexit, soprattutto le loro espressioni politico parlamentari, come i capponi di Renzo, non hanno fatto alcun accordo elettorale e la compatta minoranza della destra antieuropea ha vinto e segnato la fine delle speranze di quanti ritengono che non sia affatto conveniente credere alle promesse di Donald Trump.

Ai britannici, infatti, non è sfuggito il nuovo metodo impresso dal Presidente americano alle relazioni politiche e economiche intenzionato a modificare a livello internazionale. Sanno che pure loro potrebbero trovarsi, al momento del dunque, a subire gli spicci sistemi applicati per piazzare dazi a tutto spiano a chiunque, restato isolato, s’ intenda piegare agli interessi americani, giungendo a stracciare accordi e relazioni consolidate da decenni. Oltre che con la Cina, Trump lo ha fatto con il Messico e con il Canada. Non si riesce a capire perché un domani non potrebbe ripetersi anche con il Regno Unito, magari costretto a ritrovarsi dipendente dagli Usa persino più di quanto non lo sia stato per oltre 40 anni dall’Europa.

Ovviamente, per riportare le cose nel giusto quadro, parliamo solo di un distacco istituzionale ed economico, perché la principale delle isole britanniche sempre ad un tiro di schioppo da Calais resta. E ci resta con una mentalità, relazioni ed interessi collegati e connessi con il resto dell’Europa.

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I britannici non sono più gli snob dei secoli scorsi quando i giornali londinesi scrivevano che, in caso di fitta nebbia, fosse il Vecchio continente a restare isolato dalla Britannia. Oppure,  organizzavano partite di calcio ed altri eventi sportivi  “contro il resto del mondo”. O guardavano al di là della Manica e Oltreoceano dall’alto di un piedistallo fatto di peso culturale, finanziario ed economico, di forza militare di cui non dispongono più se non per una quota parte, come tanti altri. Non sono più il centro del mondo e lo sanno bene. Sono “contaminati” e a loro, commercianti e gente pratica, la cosa sta pure bene.

Il 30% del cibo dei britannici arriva oggi dall’Europa. La bevuta di birra è insidiata dalla consumazione del vino, come dimostrano film e tante serie tv di successo britanniche in circolazione anche sulle nostre televisioni. Che dire dei viaggi a basso costo in tutti i continenti a portata di ogni tasca, della possibilità di trasferirsi a vivere nelle assolate terre che bagnano il Mediterraneo, della partecipazione a progetti europei in tantissimi settori? L’essersi messi a cavallo tra l’economia dell’euro e quella del dollaro ha consentito di prendere da una parte e dall’altra, mentre la sterlina è sempre restata una delle valute che contano.

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Per non parlare del ruolo che la City di Londra ha visto crescere sui mercati finanziari mondiali. Forte , però, del fatto di essere diventata riferimento e sbocco dell’intero mondo finanziario europeo. Questo spiega perché Londra è sempre stata contro la Brexit e una buona parte della finanza britannica non l’abbia affatto incoraggiata.

E’ vero che negli ultimi anni il saldo tra import ed export verso gli altri paesi europei ha sempre presentato un saldo negativo, ma non è detto che la Brexit risolva la questione e non finisca per aggravarla. Non è facile né veloce riequilibrare produzioni e consumi che negli ultimi decenni hanno sempre più visto legati i dati dell’economia del Regno Unito a quelli dell’Europa e che, sia per le esportazioni, sia per le importazioni hanno veleggiato comunque attorno al 50% del valore complessivo.

E’ vero  che il Regno Unito importa più beni materiali ( e sempre quelli dovrà probabilmente importare, se non dall’Europa, da qualche altra parte ), ma esporta circa il 46% verso l’Europa e solo l’11% verso gli Usa e un misero 5,6% verso la Cina.

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Di converso, ha un saldo attivo invece per quanto riguarda l’esportazione di servizi verso i paesi Ue, adesso a rischio di essere sottoposti a tasse più alte. Così come, un possibile disallineamento eccessivo tra le regole commerciali europee e le nuove britanniche, a partire da ciò che riguarda la Vat, l’Iva nostrana, potrebbe comportare un serio pericolo per alcuni settori produttivi del Regno Unito molto legati alle esportazioni verso il resto dell’Europa. E’ il caso dell’automobilistico ( per un valore pari a circa la metà dei 45 miliardi di sterline di esportazioni complessive ) e del chimico farmaceutico ( circa 12 miliardi di sterline e pari al 60% del totale ). Come ricorda The Economist in edicola proprio oggi  la Confindustria britannica è pertanto molto preoccupata che la posizione del Governo di Londra finisca per puntare ad un consistente disallineamento rispetto alle tariffe europee.

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Alla scorsa nostra mezzanotte, dunque, la libertà ha cominciato a presentare pure qualche conto. Solo il futuro dirà quanto potrà essere salato.

A partire dalle future conseguenze della divaricazione tra il sentimento della maggioranza dei votanti e i seggi distribuiti in Parlamento di cui ho già detto. Forse, la questione più complicata sotto questo punto di vista istituzionale riguarda importanti aree geografiche. Londra, la Scozia e l’Irlanda del Nord. Tutte con una netta  maggioranza espressa a favore del rimanere. Si è trattato di un voto frutto non di una scelta ideologica, come si sarebbe portati noi italiani a pensare. Bensì, in aderenza ad interessi ben precisi che non mancheranno di far valere quotidianamente le loro ragioni in tutti in modi.

In Galles hanno vinto i favorevoli all’uscita, ma poi il Parlamento locale ha cambiato idea e si è allineato a quelli scozzesi e dell’Ulster e rifiutato la linea estremista di Londra ( CLICCA QUI ).

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E’ evidente che molto dipenderà da come Boris Johnson affronterà gli undici mesi di confronto con Bruxelles per regolare definitivamente il dopo uscita, ammesso che si raggiunga un’intesa amichevole. In particolare, per quanto riguarda i già citati scambi commerciali e la libera circolazione delle persone. Entrambe queste questioni influiranno sulla produzione di beni, sull’organizzazione del lavoro, su consumi e Pil. A proposito di quest’ultimo, secondo alcune proiezioni, la perdita procapite potrebbe andare dal  1.4% al 4.9%, a seconda dell’accordo che sarà possibile raggiungere.

L’uscita dall’Europa, destinata sicuramente a dare più capacità decisionale al Governo di Londra, avviene sulla base di calcoli a priori che, poi, dovranno confermarsi validi, come solo la verità dei fatti concreti sarà in grado di validare o smentire.

Intanto, è stato dimostrato che la Brexit è costata già circa 70 miliardi di sterline con un costo per ciascun britannico di 840 ( CLICCA QUI ). Smentendo le promesse elettorali di Johnson sulla fine dell’austerity imposta da Bruxelles ( vecchio ritornello riduttivo e parziale, anche nostrano ),  è appena arrivato l’annuncio di Downing Street sul 5% di tagli alle dotazioni finanziarie di tutti i ministeri. Film già visto anche in Italia, prima e dopo il Governo Monti, la cui trama è costituita dall’aumento di fatto dell’austerity e dalla contrazione dei servizi offerti a i cittadini. E qui, qualcuno fa intravedere la logica ideologica d’impronta liberistica, sempre sottostante alla Brexit: da un lato, si sà che si dovrà aumentare il debito, ovviamente pagato dai più deboli; dall’altro, si opterà per un modello americano d’impronta privatistica, cosa che aggraverà i divari sociali e geografici.

La cosa fa il paio con l’annuncio della nazionalizzazione della Northern Rail, il principale operatore ferroviario del Nord d’Inghilterra, dove gestisce oltre 500 stazioni, e più grande franchising del Paese, di proprietà delle ferrovie germaniche Deutsche Bahn ( CLICCA QUI ).

Siamo insomma dinanzi ad uno strano miscuglio fatto di demagogico populismo, su cui già giunge l’apprezzamento dei sindacati, e di una politica liberistica, altrettanto sfrenata. Reggerà questo intruglio o impazzirà come la maionese montata male?

Tocca consolarsi con la constatazione che, alla rovescia, il Vecchio continente, meno condizionato dall’essere i britannici ” in Europa solo a “mezzo servizio”, talvolta pure sabotandone o limitandone gli obiettivi, potrebbe pure guadagnarci da una scelta che dispiace, ma per la quale c’è solo da mettersi l’animo in pace, in attesa che il futuro ci dica se quella della Brexit fu “vera gloria”.

La libertà, in fondo, ha anche qualcosa a che fare con l’ottimistico scommettere sul domani. In ogni caso, la più grande delle isole britanniche starà sempre ancorata sulle coste europee. Cosa che non sfugge a Boris Johnson, che non a caso, ha studiato bene latino, greco e italiano.

di Giancarlo Infante – politicainsieme.com