In Italia esiste il diritto a non nascere se con la nascita si ha poi una vita ingiusta?

Domande complesse, difficilmente inquadrabili sotto il profilo morale, logico e giuridico, alle quali non è possibile di getto dare una risposta certa. È dunque opportuno ripercorrere l’evento che ha generato tali interrogativi. Il caso prende le mosse da una donna non correttamente informata, durante la gravidanza, circa le malformazioni del feto che portava in grembo.

Una donna gravida che, rivolgendosi al medico curante per una diagnosi sul feto, faceva presente al sanitario il suo intento di abortire nel caso in cui la diagnosi manifestasse una qualche forma di grave patologia del nascituro. Nel caso di specie, nonostante i valori riscontrati negli esami effettuati non fossero rassicuranti, alla donna non veniva riferito nulla circa le condizioni di salute del nascituro.

Così rassicurata, la donna portava avanti la gravidanza, dando alla luce una bambina affetta da sindrome di Down. Contro il medico, che non avrebbe prescritto esami più approfonditi, agiscono per il risarcimento sia i genitori in proprio, ma anche quali rappresentanti della minore.

Partendo dalla considerazione preliminare che il nostro ordinamento prevede l’aborto eugenetico, cui sarebbero tenuti i genitori (quanto meno la gestante), ove correttamente informati delle malformazioni o delle malattie del feto da parte del sanitario, si giunge alla conseguenza che la mancata informazione della malattia del nascituro impedisce alla madre di poter esercitare la facoltà di aborto, rendendo il medico stesso unico responsabile della vita non sana o “ingiusta” del minore, che invece avrebbe avuto come alternativa quella di non nascere.

È con legge 22 maggio 1978 n. 194 che si è introdotto nel nostro ordinamento il diritto della donna ad interrompere la gravidanza. Tale legge ha cercato di contemperare il diritto della donna ad autodeterminarsi in ordine alla possibilità di continuare la gravidanza o meno, e quello del concepito a nascere.

Secondo tale normativa, nei primi novanta giorni di gravidanza, la donna può decidere di porre fine alla stessa, ove la sua prosecuzione comporterebbe un serio pericolo in relazione al suo stato di salute, alle condizioni economiche e più in generale alla sua salute psico-fisica.

Pertanto l’alternativa all’insorgere della malformazione che una corretta diagnosi avrebbe potuto dischiudere, è rappresentata non certo dalla sua eliminazione o anche soltanto dalla sua attenuazione, ma dall’impedimento della nascita del concepito.

Il contenuto dell’obbligo violato dal medico (la diagnosi della malformazione e la messa a conoscenza della gestante) nel caso di malformazioni genetiche si limita a proteggere la vita e la salute della donna, anche nella prospettiva della sua libera determinazione in ordine alla prosecuzione della gravidanza e non anche il nascituro, sicché sarebbe incongruo imputare al medico, come conseguenza della violazione di tale obbligo, ricadute, peraltro non direttamente cagionate, a carico del nato.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015, sembra aver messo finalmente fine a una serie di interrogativi di non poco conto circa la particolare tematica del c.d. diritto a non nascere.

Con tale statuizione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sono giunte ad affermare a chiare lettere che, nell’ordinamento giuridico italiano, non esiste un diritto a non nascere se non sani.

Secondo il fine ragionamento logico della Corte, il danno presuppone una valutazione tra la condizione attuale del danneggiato e quella che si sarebbe verificata se non ci fosse stata la condotta illecita.

Se il medico avesse agito correttamente, più che la malattia, si sarebbe evitata la nascita e dunque il confronto va fatto tra la condizione di “essere vivente ma malato” e la “non esistenza”.

E’ impossibile in pratica dire se sia meglio nascere malati che non nascere affatto. Si è dunque in presenza di un paradosso: è come se il malato chiedesse di venire guarito facendosi uccidere, oppure eliminare la malattia eliminando il malato, che è chiaramente un artificio lontano dalla realtà.

È la Cassazione a fornirci le coordinate circa la negazione dell’esistenza di un «diritto a non nascere», presupposto nato dall’idea che la malformazione sia una perdita rispetto al non venire ad esistenza: come se si tutelasse il diritto al suicidio contro chi tenti di impedirlo.

Il «diritto a non nascere» si pone dunque come presupposto del «diritto alla felicità» di cui rappresenterebbe una sorta di corollario estremo e di esso si renderebbero peraltro interpreti i genitori, attribuendo al nato la volontà di rifiutare una vita minoris generis rispetto a quella non afflitta da limitazioni.

La mancata venuta ad esistenza non può essere in alcun modo considerata una condizione preferibile alla vita, anche se fortemente condizionata. Del resto, il presupposto stesso, affermato sin dal diritto romano, è la vita del soggetto e la sua centralità e non la morte nella sua più forte connotazione eugenetica.

DOTT. FRANCESCO GRAFFIGNA