E le stelle stanno a guardare…l’Italia, sbigottite. Anche il sole ha preso un’espressione rassegnata. Quegli astri che avevano privilegiato il Bel Paese, regalandogli cieli sereni, colori bellissimi, un clima meraviglioso, patiscono una ingratitudine inaccettabile. Le coste selvaggiamente deturpate, i boschi bruciati dai vandali, le campagne spesso incolte, i rifiuti in enormi cumuli abbandonati sulle strade, le stesse straordinarie opere d’arte, frutto di quel genio italico che ci era stato donato, nella maggior parte in rovina, poco frequentate e per nulla valorizzate.

Un popolo, che sembra aver dimenticato la grande civiltà da cui proviene, appare rassegnato, smarrito, imbarbarito e cerca di nascondersi dietro il falso alibi delle colpe della classe dirigente, mentre essa è nient’altro che la proiezione autentica di una società ripiegata su se stessa, priva di valori, che vive alla giornata e rivela tutta la sua natura primitiva negli stadi di calcio.
Il rito democratico delle elezioni fa pensare a quei film americani in cui tribù di migliaia di indiani urlanti si lanciavano alla carica allo scoperto e venivano trucidati da pochi cannoni e fucili, azionati da qualche centinaio di militari posti ben al riparo.
Cosa è stata la recente campagna elettorale se non una assalto rabbioso contro tutto e contro tutti, assecondando il grido di battaglia lanciato da capipopolo, che incitavano all’aggressione delle finanze pubbliche? Reddito di cittadinanza, abolizione della legge Fornero, agevolazioni fiscali e spese statali all’infinito, senza una sola parola su come e dove trovare le fonti per finanziare tali spesso improbabili riforme.

Come era facilmente prevedibile il delirante sogno si è infranto di fronte alla impossibilità di formare una coerente maggioranza parlamentare, quindi facendo tirare un sospiro di sollievo agli imbonitori che avevano promesso traguardi immaginari, consapevoli di non poterli raggiungere. Chi li aveva votati non si aspettava il mantenimento delle mirabolanti promesse, perché sapeva bene che si trattava di semplici chimere. In realtà voleva soltanto sfogare la propria insofferenza, unendosi a quel grido di battaglia per il sadico piacere di punire l’ennesima casta.

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Nell’ultimo quarto di secolo, quasi ogni appuntamento elettorale è stato caratterizzato dalla voglia di buttar giù il Palazzo, tanto che, ad ogni elezione, è cambiato almeno il cinquanta per cento dei rappresentanti, quest’ultima volta persino il settanta. Ma la rabbia non si è fermata. Basta armarsi dell’eroica pazienza di sopportare, anche per i pochi minuti, uno dei tanti, troppi talk show, per rendersi conto che la inesauribile sete di vendetta non si è arrestata e che non si parla altro che dei vitalizi e dei privilegi da abolire di una casta che, se è mai esistita, è scomparsa da tempo.
Il giovanotto ripulito col vestitino della domenica della periferia napoletana Di Maio, incassato il bottino, sembra aver sotterrato l’ascia di guerra, anzi lancia messaggi rassicuranti e tenta di cimentarsi in uno sgrammaticato lessico di tipo istituzionale. Il Fico Presidente della Camera ostenta comportamenti da semplice uomo della strada, facendosi filmare su un autobus di linea o mentre va al Quirinale a piedi, naturalmente circondato da un cordone di centinaia di poliziotti. Tali scene buffe, cui siamo stati costretti ad assistere, dipendono da semplice, becera ignoranza. Infatti l’autore non si era reso conto, prima di metterle in atto, che un determinato status istituzionale impone delle precauzioni e che quindi non si tratta di rinunciare a presunti privilegi, ma del rischio di esporsi a pericoli, che un Paese serio non può far correre alla terza carica dello Stato. Salvini ha scelto di parlare poco, concentrandosi nella campagna elettorale regionale in Friuli, salvo qualche saltuario ruggito e qualche inopportuna invocazione a Di Maio per riprendere un dialogo innaturale, che si è dimostrato impossibile.

Il PD si appresta ad un difficile accordo interno, che dovrebbe riportare alla guida Renzi e soddisfare la necessità di potere dei suoi capi corrente, a cominciare dal democristianissimo Franceschini, che, insieme al vecchio amico del Colle più alto, sta conducendo la difficile operazione. L’alleanza M5S – PD è la più logica e se dovesse fallire, si tratterebbe di un errore per due forze politiche che provengono dalla medesima area della ex sinistra italiana, oggi in decomposizione.

Certo, per i pentastellati, significherebbe perdere il consenso dei moltissimi moderati che li hanno votati per protesta, ma sono consapevoli che si tratta pur sempre di voti ricevuti solo in prestito. In ogni caso nascerebbe una maggioranza debole e di breve durata, che non potrebbe realizzare nulla di quanto promesso agli elettori e che non sarebbe in grado di affrontare alcuno dei veri problemi del Paese. Si tratta di forze che non oseranno mai fare la necessaria riforma di una pubblica amministrazione pervasiva, opprimente e spesso corrotta, che imporrebbe la chiusura di molti uffici inutili e la eliminazione di pratiche amministrative vessatorie per il cittadino, ma che restano il cardine della cultura di sinistra, al cui interno si riconosce elettoralmente quel vasto ceto che usufruisce dei relativi benefici. Non oserebbero tentare la bonifica, necessaria di parassitismi, privilegi, assistenzialismi, sussidi, agevolazioni, regalie, perché significherebbe perdere l’unica parte dell’elettorato ancora manovrabile attraverso il voto di scambio. Non penserebbero neppure lontanamente di smantellare il grande affare dell’accoglienza dei migranti, con il rischio del venir meno di una fonte di finanziamento per le loro cooperative e di entrare in rotta di collisione con le solide strutture assistenziali organizzate dal mondo cattolico. Che essi possano concepire un’idea sulla quale ricostituire una scuola moderna formativa e luogo dell’insegnamento dei valori civili, sembra impossibile, dopo tante riforme e riformine, tutte peggiorative e clientelari. Ancora più complicato sarebbe per loro por mano alla necessaria trasformazione di quel diplomificio, che è diventata l’Università pubblica, per restituirle il ruolo che le sarebbe proprio, di luogo dei saperi e della ricerca.
Fare una riforma della giustizia per rendere un servizio efficiente alla comunità, anziché per rafforzare il potere d’interdizione delle magistrature ordinaria e amministrativa, non rientra nelle priorità dei nostri nuovi eroi. Potremmo continuare, ma bastano questi pochi, significativi esempi.
Il vero problema è il dilagare di una polemica ridicola contro la concezione borghese e liberale della società, che invece si è rivelata l’unica vincente, pur scontandone le nuove e sempre crescenti difficoltà, connesse all’evoluzione del mercato.
Dov’è la sinistra di un tempo, quella operaia delle grandi fabbriche, del sindacato, delle adunate oceaniche del primo maggio a San Giovanni? Sparita la lotta di classe, insieme allo stesso mondo operaio, che nella società dei servizi non ha più spazio, l’aspirazione dei decenni scorsi era di diventare tutti borghesi. In qualche modo questo processo si era avviato, ma di fronte alla crisi della società postindustriale, senza che nascesse quella moderna dei servizi, si è fermato, facendo scomparire quell’orizzonte di benessere al quale tutti si erano ispirati.

Di fronte all’incertezza economica, di un sistema che stenta a trasformarsi, da una parte, i cittadini esprimono una giustificata delusione, che spesso si trasforma in rancore, dall’altra, una politica non all’altezza ha cercato, e cerca ancora, di sopperire con un assistenzialismo dal costo insopportabile, che suscita la rivolta fiscale di coloro che si trovano soggetti ad una pressione tributaria insostenibile. Si ripropongono quindi schemi di un passato, che non può tornare: l’autarchia, lo statalismo, i dazi, il ribaltamento di troppi costi sulla finanza pubblica, non sono più possibili. In Italia, come in tutta Europa, i partiti socialisti ne hanno pagato il prezzo politico. Nel nostro Paese tuttavia rimane troppo statalismo nelle aziende pubbliche locali a nazionali. La CDP, sprecando inutilmente risorse, sta cercando di diventare la nuova IRI, ma con successi modesti ed incapace di offrire posti di lavoro e prospettive economiche. Si dovrebbe andare invece nella direzione contraria delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, dell’incoraggiamento al rischio per chi ha capitali da investire e possibilità di nuove offerte nel mercato del lavoro privato, affrontando, con processi adeguati, l’aggressività di Amazon o Ikea, non demonizzando l’innovazione, ma studiando come realizzare economie di scala per riuscire ad essere competitivi.
Per rendere tutto questo comprensibile e fattibile, servirebbero forze politiche responsabili, colte, preparate, con una visione della trasformazione dell’economia mondiale in grado di affrontare i complessi problemi di una necessaria modernizzazione, senza demagogia e chiedendo una parte del necessario sacrificio a tutti, sapendo che è dovere di ogni civile società democratica, aiutare gli ultimi, che altrimenti non ce la possono fare.

di Stefano de Luca – Rivoluzione Liberale