Ha distrutto un partito, l’ultima severa  punizione elettorale l’ha subita domenica scorsa, tutti, compresi i più  fidati tirapiedi, danno segni evidenti di nervosismo auspicando che lasci  il più velocemente possibile ma lui niente, non se ne vuole andare.
In queste ore al Nazareno se ne vedono di belle, la fiera dei voltagabbana è iniziata. Scudieri di vario genere pronti a pugnalare alle spalle il capo (ancora per poco), capicorrente che guardano già al successore (il più gettonato è la new entry nel partito, il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda) altri che vorrebbero alla guida della segreteria Del Rio o Franceschini. Insomma, la solita misera scena del tutti contro tutti quando la barca affonda.
Nel quartier generale si respira un’aria da resa dei conti,  alcuni si muovono in una nevrotica azione  nel tentativo di riposizionarsi cercando però di rimanere nell’ombra, almeno per ora. C’è da giurare che da un momento all’altro  qualcuno comincerà addirittura  a ridicolizzare il fiorentino con la battuta “Renzi chi?”, battuta tanto cara allo stesso segretario quando con atteggiamento tronfio sbeffeggiava con la sua innata arroganza coloro che osavano criticarlo. Ma i nodi vengono sempre al pettine e ora la situazione addirittura scade nel ridicolo  dopo le dimissioni annunciate e subito congelate di Renzi che evidentemente non ha ancora metabolizzato la pesante sconfitta.
La follia di Renzi, il suo attaccamento al potere, la sua scelta di uscire di scena  solo dopo l’insediamento del nuovo Parlamento e la formazione del Governo affinché il Pd resti all’opposizione e non scenda a patti con il M5S, stanno provocando un  autentico tsunami tra i dem. Le varie correnti stanno affilando i coltelli per il primo duello previsto lunedì prossimo, giornata in cui è fissata  la Direzione che porterà all’assemblea nazionale per la convocazione del congresso anticipato, naturalmente, visto il disastro sentenziato dalle urne domenica che ha solo un colpevole: Matteo Renzi. Intanto in casa Pd già si delineano alcuni blocchi in cui  si cominciano a valutare eventuali  possibilità di intesa con i pentastellati infischiandosene quindi di quello che sostiene Renzi portando dunque lontano il partito (o meglio ciò che ne rimane) dalla linea fallimentare intrapresa dal segretario a un passo dall’addio.
Il toscano sa di essere finito tuttavia non perde l’abitudine di mettere i bastoni tra le ruote di chiunque sia contro di lui cercando disperatamente un qualsiasi viatico possibile che potrebbe assicurargli in futuro un ritorno da leader. Altro che le balle sparate   in occasione del “suo” referendum del 4 dicembre 2016 quando sosteneva che se avesse perso se ne sarebbe tornato a casa (stessa cosa aveva promesso la sua fidata Boschi). Ma questa volta una rentrée appare poco probabile vista l’eredità di un partito in macerie che si lascia alle spalle. Dura per uno come lui accontentarsi di un semplice  seggio in Senato magari sognando  una disgrazia istituzionale per tornare protagonista della scena politica.