Nelle stesse ore in cui si stava tragicamente sgretolando la leadership di Boris Johnson a Downing Street, da noi è andata in scena la solita commedia all’italiana rappresentata in maniera plastica dal surreale incontro tra il premier Mario Draghi e il suo predecessore, Giuseppe Conte.

Conte e Draghi giocano per lo zero a zero

Colui che Beppe Grillo ha definito lo specialista dei penultimatum si è presentato a Palazzo Chigi senza avere la reale intenzione di provocare una rottura all’interno della maggioranza con conseguente capitombolo del governo dei migliori.

Giuseppi, conciliante in sede di trattative e più combattivo solo davanti a taccuini e microfoniha chiesto discontinuità, una maggiore attenzione per le tematiche care ai pentastellati (avendo, però, tolto dal tavolo la questione delle forniture di armi all’Ucraina che erano state il pomo della discordia), ma non si è spinto oltre questo, subendo la reazione stizzita dell’ala più oltranzista capeggiata da Di Battista.

In termini calcistici, si potrebbe dire che la partita tra Draghi e Conte si è conclusa con pochi tiri verso la porta e un deludente zero a zero che fa solo il gioco dell’ex banchiere, che riesce a tenere ancora una volta in piedi il suo traballante Esecutivo.

D’altronde, quelle dell’avvocato del popolo sono semplici schermaglie con le quali proverà ad arrestare l’emorragia di voti e a evitare di perdere la guida del Movimento. Un tentativo quasi disperato visto che il tramonto grillino, accompagnato da una diaspora ormai inarrestabile, avrà delle ovvie e pesanti conseguenze sul piano elettorale.

Le critiche di Dibba

Con la consueta sobrietà, attraverso le sue pagine social, come anticipato, è stato lo stesso Alessandro Di Battista a sferzare l’atteggiamento ondivago di Conte: “Chissà, magari il Movimento uscirà dal governo dopo l’estate, quando i parlamentari avranno maturato la pensione. Magari uscirà dopo la finanziaria, momento d’oro per chi è alla ricerca di denari da trasformare in marchette elettorali. O forse non uscirà mai”.

Per poi concludere in modo lapidario, da par suo: “Intanto, anche i più irriducibili sostenitori del Movimento, gli ultimi giapponesi direi, si domandano come sia stato possibile ridurre la più grande forza politica del Paese nella succursale della pavidità e dell’autolesionismo”.

Un brutto colpo da incassare per Conte, passato dalle conferenze stampa notturne in cui era il Commander-in-Chief della nazione nella prima fase pandemica a questo ruolo di comprimario in un finale di legislatura assai poco esaltante, in cui lui sgomita senza incidere, alza la voce senza ottenere nulla di concreto (se non un po’ di visibilità) e il governo vivacchia sulle debolezze o sulle incertezze altrui.

Dibba ha replicato in maniera secca (“la sua linea non è la mia”), evitando per una volta fronzoli lessicali. Anche se, sul piano pratico, si fa fatica a delineare quale sia il filo conduttore della strategia contiana. Un po’ rompe, un po’ no. Un po’ vota la fiducia, un po’ non la vota. Un po’ resta, un po’ va. Una sorta di Godot alla rovescia che non convince, non appassiona e non sposta gli equilibri politici.

A Londra vero scontro

Di tutt’altro tenore, il livello del dibattito dai registri scespiriani a Westminster dove Boris Johnson è stato sfidato e praticamente sfiduciato in Parlamento al termine di uno scontro duro e cruento, come si addice alla tradizione inglese, ma trasparente e chiarificatore agli occhi dell’opinione pubblica.

Nessun tatticismo o temporeggiamenti: à la guerre comme à la guerre. D’altronde, la politica nella sua vera essenza è il conflitto tra idee e diverse posizioni, anche all’interno dello stesso schieramento, e non necessariamente il compromesso al ribasso.

A Roma in scena il trasformismo

In Italia, siamo abituati al fatto che il confronto venga anestetizzato e, soprattutto, sottratto alla camere parlamentari. Tutto si svolge secondo riti bizantini sempre più astrusi e anacronistici.

Ognuno bada al proprio particulare, all’interesse o alla convenienza del momento. Manca una visione strategica che proponga una prospettiva un po’ meno corta dell’arte del rinvio e delle alleanze spurie.

Infatti, ora come ora, l’unica direzione percorribile per Conte è quella di accodarsi al Pd, azionista di maggioranza del centrosinistra, che detterà le condizioni per far parte dell’alleanza elettorale in cui Di Maio e l’ex premier, freschi di divorzio, potrebbero ritrovarsi dalla stessa parte della barricata.

Sono le alchimie, o meglio ancora i tripli salti carpiati, della nostra classe politica che, ancora una volta, mostra come il trasformismo sia un connotato piuttosto dominante.

La verità è che, per non mortificare ulteriormente le dinamiche democratiche nonché le prerogative parlamentari, si dovrebbe prender atto che, con queste sconfortanti premesse, non si può più proseguire. Ormai le contraddizioni della maggioranza e le fibrillazioni per il governo, che stanno assumendo tratti pure grotteschi, sono insostenibili.

Il governo della melina

Draghi ha ammesso che “si naviga a vista”. Ecco, nel Regno Unito, per non restare impaludati, forse avrebbero tratto le conseguenze di questa navigazione senza meta. Sarà che, da noi, non se ne intravedono capitani coraggiosi saldamente al timone pronti a salpare verso l’orizzonte periglioso.

Anzi, a dispetto di quanto si diceva qualche tempo fa, prende sempre più corpo, in caso di strappo contiano, l’ipotesi di un Draghi bis, evocata in maniera sibillina da Enrico Letta e accolta con entusiasmo da Giancarlo Giorgetti.

Insomma, dal governo dei “migliori” si passerebbe – per restare sulla metafora calcistica – a quello della melina. Con i partiti impegnati a passarsi ripetutamente il pallone per allontanare sempre di più il voto e predisporre in extremis una legge elettorale ibrida che imbrigli pure il nuovo Parlamento. Sarebbe il degno epilogo di questa incredibile quanto assurda legislatura.

Gianluca Spera – Atlantico